In un Paese che per tradizione secolare, territoriale e culturale, ha sempre messo al centro degli interessi le relazioni umane, le restrizioni cautelative per sconfiggere il virus hanno determinato inevitabilmente una frattura tra il passato e il presente prodromo di un futuro non chiaro all’orizzonte.
Dopo un lungo lasso di tempo, tra la seconda metà del ‘900 e l’attuale ventennio, niente ha visto convergere tante opinioni su un unico e tragico fatto come quello rappresentato dal Covid19 e dalle sue conseguenze.
Al contrario di quello che è avvenuto per ogni dramma precedente, sia che abbia investito aree geografiche e popolazioni, guerre e crisi economiche, flussi migratori e terrorismo, che è stato testimoniato, di volta in volta e parzialmente dai protagonisti a tutti coloro che seguivano le vicende a distanza e con diverso coinvolgimento, questa pandemia ha interessato tutti allo stesso modo.
Abituati a considerare gli unici punti uniformanti della specie umana la nascita e la morte (sul modo con cui si viene al mondo o come lo si lascia fa parte degli imprevisti), l’espandersi di questo virus ne ha introdotto un altro: l’impossibilità dell’onnipotenza.
L’illusione di potere prevedere, sperimentare, conoscere i misteri che hanno circondato la vita ha ceduto sul terreno del fare e chi deve fare. Ovvero siamo stati riportati alla dimensione umana originaria.
Colpiti democraticamente, oltre status e appartenenza, età o genere, i gestori delle cose umane si trovano in qualche modo a rimettere in discussione l’organizzazione con cui hanno detenuto potere e guidato popoli riportando gli assetti tecnici-burocratici-politici a confrontarsi con il senso della vita.
Nella prima fase, avvertita con incredulità-terrore, ogni cosa si è svolta nei binari della sopravvivenza umana: solidarietà, aiuto, conoscenza, scienza, scoperta, coscienza, difesa, gestione dell’esistente.
Nella seconda fase, tuttora non esaurita, si sono attivati metodologie, saperi e ricerca, derivanti comunque da esperienze precedenti e quindi non sempre idonee.
Nella speranza che non si apra una terza fase dal punto di vista epidemico, se ne apre comunque un’altra parallela, non collocabile, non quantificabile che durerà assai più a lungo. E sarà una lunga convalescenza.
Vissuti da decenni in uno stato di “benessere” economico, pur non equamente distribuito e nell’ illusione di una buona vita, in questa circostanza soffriamo non solo dell’immediatezza pandemica ma anche di tutte le falle da cui eravamo distratti, rendendoci conto che niente era stato predisposto o pensato per un progetto politico-sociale ad ampio respiro nel tempo.
In quest’illusione si è assistito al verificarsi di catastrofi naturali, terremoti, crollo di ponti, infrastrutture fatiscenti ecc. e all’ incapacità di risanamento dei territori colpiti, del rinnovamento delle strutture crollate, ad una previsione di gestione futura.
L’abitudine alla parzialità degli interventi è stata azzerata dall’emergenza Covid della quale la più evidente è segnata dalla crisi del sistema sanitario, un settore al quale erano state ridotte risorse tecniche e umane.
In un Paese che per tradizione secolare, territoriale e culturale, ha sempre messo al centro degli interessi le relazioni umane, le restrizioni cautelative per sconfiggere il virus hanno determinato inevitabilmente una frattura tra il passato e il presente prodromo di un futuro non chiaro all’orizzonte.
Ciononostante la capacità individuale di mettere in atto una resilienza al di fuori delle previsioni, ha dato prova di sapere mettere in atto azioni di difesa e protezione affidandosi ai comandamenti del governo e al sapere della medicina.
Nondimeno, queste misure di protezione e di contenzione del virus hanno sicuramente costretto al rispetto di alcune regole che hanno messo a dura prova abitudini e consuetudini sociali.
Distanziamento e isolamento fra individui, anche in grado di parentela, in alcuni casi hanno provocato una disgregazione innaturale d’interi nuclei, compromettendone l’affettività, la protezione e l’unione di gruppo, consentendo lo sviluppo di forme di violenza fisica e psicologica all’interno delle famiglie, esaltando la ribellione e mortificando il senso di responsabilità comune.
L’introduzione di nuove metodologie di lavoro, un diverso uso della mobilità urbana, l’accudimento di minori-anziani-malati non autosufficienti con un oneroso carico sulle famiglie, la difficoltà di accedere ad ogni servizio, l’aumento della povertà, non hanno fatto altro che evidenziare le insufficienze preesistenti.
La difficoltà di distribuire diversamente la popolazione scolastica per mancanza di spazi e personale docente, l’eccesso di lavoro e di accudimento che ricade sulla donna, l’aumento delle forme di violenza, la perdita di identità di giovani e anziani, la mancanza di luoghi di cultura ecc. non si sono manifestati all’improvviso ma inevitabilmente si sono mostrati in tutta la loro problematicità e se il virus ha avuto, avrà, conseguenze sul sistema sociale finora adottato non avrà tutte le colpe.
E come in tutte le nuove fasi c’è sempre qualche voce che si erge a guru del “nuovo”.
Oltre a rispettare le indicazioni pratiche, mascherine, distanze, assembramenti, vengono date anche molte indicazioni sul chi siamo e sul cosa fare.
In preda ad un’improvvisa voglia d’insegnare, di trasformare quest’umanità “contaminata”, di educare, vengono proposte forme di relazioni, di comportamenti sociali, di progettazione di spazi e tempi individuali diversi e a volte inquietanti.
Come se gli individui da oggi non possano più vivere nel modo finora conosciuto. Come se fossimo all’apocalisse. Come se solo lo sviluppo e l’utilizzo delle tecnologie sul mercato e quelle che sono allo studio di grandi gruppi economici del settore fossero l’unica arma vincente del cambiamento.
Ciononostante c’è da augurarsi che la storia, la sapienza, la creatività, la speranza ed il pensiero umano resistano, malgrado tutto ciò e malgrado le colpe del Covid.
MoondoInfo
da donneierioggiedomani.it