Cronaca di una giornata davvero particolare in cui mi è stata somministrata la prima dose del vaccino AstraZeneca: il racconto della mia esperienza, affinché chi legge possa trarne informazione, incoraggiamento e speranza.
Qualche giorno fa, al termine di una seduta a distanza, mi soffermo un secondo a guardare la pianta di rosa sul balcone che, come per magia, d’improvviso s’è ricoperta di getti nuovi, verdi, ostinati e ribelli.
Con questo freddo, penso. Spero dentro di me che l’audace vegetale non si bruci per questa tramontana che raggela al pari del galoppo delle varianti del Coronavirus.
Qualche ora dopo ricevo una telefonata. Mi comunicano che l’indomani, giorno del mio Compleanno, mi verrà praticato il vaccino AstraZeneca e mi si rimanda alla grande struttura allestita per le vaccinazioni dalla Croce Rossa a Fiumicino. Anche se da alcune settimane mi ero iscritta nella lista del mio Albo professionale, l’emozione che provo è notevole e pari alla sorpresa per la convocazione all’atto apicale di una vicenda che ha sconvolto il Mondo.
Il giorno del Compleanno poi. Io non credo molto alle coincidenze, ma certo è una probabilità molto rara essere chiamati proprio in quella data ed interpreto l’accadimento come benaugurale.
Al termine della giornata, con un giro di telefonate, amici e colleghi salutano favorevolmente la circostanza, anche se circola una certa preoccupazione per gli effetti del vaccino AstraZeneca, il più forte di quelli finora sintetizzati che ha dato origine ad una serie di reazioni avverse tali da esserne stata sospesa la somministrazione in alcuni Paesi e vietato l’uso qui in Italia agli over 65.
Certamente nutro qualche timore, ma mentre mi reco all’appuntamento non posso fare a meno di provare un senso di sollievo misto a trepidazione. Mi passano davanti agli occhi i momenti salienti di questo anno pandemico: dai giorni precedenti al confinamento in cui già indossavo la mascherina in metro perché si aveva notizia di queste strane polmoniti provocate da un misterioso virus, ai giorni drammatici di fine marzo in cui da casa contenevo l’angoscia dei pazienti e cercavo chi sapevo vivere solo e mancava all’appello con la pena di scoprirlo ricoverato e senza nessuno a cui far riferimento.
Sono seguiti tempi difficili in cui le giornate erano scandite dal bilancio dei contagi delle vittime, in cui mi dedicavo nei media alla prevenzione del contagio emotivo e del panico di massa, nonché al contrasto della piena incessante di fake news che concorreva a diffondere disinformazione ed aliti venefici di intolleranza tra chi rispettava le restrizioni e chi derubricava il morbo a semplice influenza. Con l’andare del tempo è aumentata la sofferenza delle persone alle prese con la paura, gli effetti dell’isolamento, i problemi economici, il senso di smarrimento e di lutto per le tante vite perdute e per quella che era la normalità di un tempo irrimediabilmente smarrita.
Informati tu, informa gli altri, gestisci un disagio psichico che monta di giorno in giorno, non farti trascinare in sterili polemiche, preoccupati dei bambini, dei ragazzi, le cui problematiche sono rimaste sullo sfondo, assisti i genitori, rispondi alle urgenze, il cellulare acceso h24, le ideazioni suicidarie, la depressione da dissesto economico, il grido di dolore delle donne confinate a casa con i loro aguzzini e il senso di impotenza generale. A fine confinamento poi ci si è dovuti misurare con il ri-uscire ed è stato sempre più importante informare, nonché far esprimere alle persone tutta questa sofferenza. Sono dunque seguite le conferenze, il microfono da disinfettare, la postazione, allerta massima, le urgenze in presenza, il termometro scanner, le scarpe da togliere, alcool e amuchina ovunque, ore con la mascherina indossata, il mal di testa, sorridi, sdrammatizza coi pazienti, infondi fiducia, “non ci lasci soli, stia attenta per carità”, “in caso di contagio vi affido ai colleghi”, “no vogliamo lei”, i pianti che contieni assieme alla preoccupazione palpabile dei familiari, dei colleghi e degli amici mentre segretamente provi anche tu tanta stanchezza, paura, preoccupazione ed a tratti dolore che ti tieni dentro perché devi essere forte.
A tutto questo penso, mentre giungo nella mastodontica struttura che somiglia ad una tendopoli allestita dalla Croce Rossa per procedere alle vaccinazioni.
L’entrata nella prima tenda, quella in cui si devono rilasciare una serie di informazioni rispondendo ad un dettagliato questionario, avviene come per il check- in all’aeroporto, una colonnina in plastica rileva la temperatura corporea e dall’alto si viene spruzzati lievemente con un liquido disinfettante.
Una persona molto cortese, di una certa età mi accoglie, accompagnata da un ragazzo giovane che sta formando e che pende comprensibilmente dalle sue labbra.
Vengo fatta sedere con questo piccolo fascicolo in cui sono scritte una serie di domande riguardanti lo stato di salute della persona che lo compila.
Al termine dell’anamnesi oltrepasso un altro ingresso e mi trovo in una maxi tensostruttura suddivisa in tanti piccoli alloggiamenti, dove c’è una scrivania a cui è seduto un medico e una sedia per i vaccinandi.
Mi accomodo. Il giovane medico, gentilissimo, legge il fascicolo e mi porge altre domande: ho conferma del fatto che il vaccino AstraZeneca non può essere somministrato a tutti, vi sono una serie di condizioni che ne sconsigliano l’uso ed il colloquio con il sanitario è necessario proprio al fine di valutare o meno l’idoneità della persona a vaccinarsi. Apprendo con curiosità che persino una condizione comune come l’ipertensione arteriosa può costituire criterio di esclusione.
Tanta accuratezza mi tranquillizza poiché quando il dottore mi dà il via libera ho la sensazione chiara che si voglia tutelare al meglio la salute delle persone.
Cammino per un lungo corridoio seguendo delle frecce sul pavimento e vedo altre scrivanie, altri sanitari che effettuano colloqui. Tutti con le mascherine, le pettorine colorate; sembra di essere all’interno di uno di quei film hollywoodiani tra la fantascienza ed il catastrofismo. Quando la realtà supera la fantasia, è il caso di dire. Giungo nella terza maxi tenda, il cuore dell’operazione vaccinale e vengo accolta da un uomo alto, il Coordinatore infermieristico penso, che prende dalle mie mani il piccolo fascicolo e mi invita in un’altra di quelle piccole stanze ricavate da pareti mobili in cui vedo su un piano d’appoggio una bacinella da medicazione contenente una ventina di siringhe monodose pronte all’uso. L’uomo gentilmente mi invita a poggiare la giacca e la borsa su una sedia e a scoprirmi il braccio, possibilmente quello che uso meno perché il vaccino provoca l’usuale dolenzia all’arto prescelto.
Sono molto tranquilla e non sento alcun male, per cui appena terminato mi scappa di sorridere all’indirizzo del Coordinatore infermieristico che sta scrivendo dei dati sul mio fascicolo.
Lui ricambia.
“Posso andare?” Chiedo. Sì dice lui, “ma si dovrà fermare quindici minuti nella prossima area, quella che precede l’uscita, per valutare se si presentano reazioni avverse. Le dico però che le più gravi in genere avvengono subito dopo la somministrazione e lei mi sembra perfettamente a suo agio”.
Si incuriosisce il collega della mia pacatezza, forse ha visto persone un po’ spaventate prima di me e scruta la mia pratica scoprendo la mia professione. Ah…mi dice…. Ora capisco! Credo alluda alla calma olimpica che mi caratterizza ed il clima è così accogliente che aggiungo: “mi creda, sono sollevata, ma più che per me per i pazienti. Crede che starò bene domani?” Lui mi dice che varie persone hanno avuto sintomi parainfluenzali, febbre, diarrea, si raccomanda di prendere della tachipirina in caso e qualora dovessi stare peggio di chiamare al numero indicato. Annuisco, stavolta tacendo. Arrivederci dottoressa, fa l’uomo e aggiunge: “abbiamo avuto, abbiamo e avremo tanto bisogno di voi!” Io provo un senso di vago smarrimento e con commozione rispondo: “anche noi di voi e grazie”. Gli occhi di entrambi si fanno lucidi nel commiato, tra di noi si è stabilita quella empatia e quella comunione istintive di chi ha tanto operato ed instancabilmente servito. Sentimenti che restituiscono umanità e vicinanza a queste creature dolenti, senza volto e fisicamente distanti che siamo stati costretti a diventare.
Mi avvio lungo un altro corridoio al termine del quale si accede alla terza grande Tenda dove ben distanziate ci sono una decina di persone sedute ad aspettare.
Una gentile e giovane infermiera, mi accoglie e scrive l’orario di arrivo in modo da trattenermi il giusto.
Trascorsi i quindici minuti ci salutiamo e vengo informata che verrò contattata per il richiamo tra 12 settimane e dunque a Maggio. Di fronte al mio stupore dato che il richiamo del vaccino Pfizer viene somministrato dopo 21 giorni e al timore di ammalarmi nel frattempo, mi informa che avrò gli anticorpi già dopo 10 giorni al termine dei quali mi consiglia di effettuare un test sierologico così si potrà valutare la risposta immunitaria del mio organismo.
Esco fuori, sto abbastanza bene, percepisco solo una dolenzia al braccio ed una certa sonnolenza.
Comincio a rispondere ad un telefono che balugina come un albero di Natale. E’ il mio Compleanno del resto. Ci ripenso soltanto adesso. E’ l’ora delle ombre lunghe e mi lascio tentare dall’idea di fare quattro passi all’aperto. Tutto mi sembra nuovo e limpido come il cielo terso di questo Febbraio gelido e struggente.
Mi sento come la rosa rossa sul mio terrazzo, viva, puntuta, resistente e ostinata: Rinata.
2 commenti
Gent.ma Dott.ssa Alexia Di Filippo è vero…. riporto la frase che mi ha colpita: “abbiamo e avremo tanto bisogno di Lei” !
Ed io ci sarò, con grande partecipazione, attenzione , esperienza professionale e soprattutto cuore.
Grazie di seguirmi sempre con grande entusiasmo, è una linfa preziosa per me, uno stimolo importante per fare sempre meglio!