Un libro che ci aiuta a fare il punto in tema di discriminazioni di genere. Un libro che ci aiuta a riflettere su quanta strada abbiamo ancora da fare, quanto sia complesso il nostro percorso per difendere i diritti acquisiti e lavorare sul cambiamento.
Leggere “Smettetela di farci la festa” di Stefania Spanò – Edizioni People 2021 è stato come ripercorrere gli ultimi anni, perché il lavoro di Stefania Spanò è stato il filo rosso che ha contraddistinto e accompagnato tanti passaggi, tutti i momenti in cui le donne sono dovute tornare a lottare, a ribadire concetti e diritti che sembravano acquisiti, o per evidenziare come in realtà i nodi da sciogliere aumentavano anziché diminuire. Ogni vignetta segna un momento, un fatto, un’istantanea di una condizione che sembra immobile o quasi, un riapparire di discriminazioni che dai fatti alle parole sembrano fagocitare le donne. Stefania Spanò è riuscita a tradurre in modo dirompente ciò che le donne sentono e vivono quotidianamente. Lo ha reso con una manciata di parole e con Anarkikka, una nessuna e centomila, come noi siamo. È riuscita a dare voce a ciascuna. Ha tramutato ogni colpo, ogni ferita in un linguaggio che non si arrende, che non si piega e che, come una mimosa, resiste e fiorisce con forza. È come se Anarkikka ci chiamasse tutte, una ad una, ad unirci e a non lasciare che le parole, i femminicidi, la narrazione tossica e l’indifferenza ci travolgano, ci tolgano voce, ci sottraggano spazi di vita e libertà.
Anarkikka è capace di disinnescare l’assuefazione alle discriminazioni e alle violenze di genere. È capace di portarci a riflettere e a comporre in noi una consapevolezza, capace di fermare il flusso e il susseguirsi continuo di informazioni. La testimonianza di come fermandoci riusciamo a osservare bene i fenomeni e la realtà. Anarkikka compie una educazione alle relazioni, ai sentimenti, una rielaborazione di ciò che si crede sull’amore, su quanto ci costruiamo sopra e su come ci viene trasmesso.
C’è tutto, anche la violenza istituzionale, la fatica di essere credute quando si denuncia la violenza, la paura per i figli, le radici culturali patriarcali della violenza, insomma, non è mai un caso. È responsabilità di tanti soggetti, e di tutti/e noi. Le molestie sui luoghi di lavoro, il lavoro che è tuttora terreno accidentato per le donne. Un comune denominatore: quanto si fa per prevenire, aiutare, sostenere, al di là di nuove norme. Argomenti da nicchia, da riserva indiana, nell’agenda solo se serve a qualche tornata elettorale, buoni per costruire forme di femminismo da consumare in fretta e dimenticare altrettanto velocemente. C’è lo sguardo sul mondo, per dire che la situazione è penalizzante per le donne ovunque, con una matrice comune. E se solo si ascoltassero le donne, se solo si ripensasse a ogni parola inappropriata e pesante adoperata quotidianamente e spedita con non curanza a una donna, forse saremmo sulla buona strada. Invece, che cosa riusciamo a mettere in campo per le donne? Con la scusa della marcia in più e del multitasking si continua a scaricare tutto sulle loro spalle. Che poi, è strano che ci si accorga all’improvviso dei problemi di conciliazione, di discriminazioni, di violenza, di diritti diseguali, solo in pandemia. Prima sì, era una nicchia, di chi lo viveva sulla propria pelle e si sentiva dire da donne come da uomini, “arrangiati, organizzati, reagisci”. Oggi sembra che anche tra donne qualcosa in più è stata compresa.
Quello che manca è ancora una piena capacità di empatia e di esercizio pieno di sorellanza, sempre e costantemente. Ma siamo solo all’inizio. Anarkikka ci accompagna in questo percorso, che è duro, faticoso, a volte fa male. Fino a che non diventerà realtà quel “di fatto”, quelle parole incastonate nell’art. 3, proprio da colei che suggerì il simbolo della mimosa. E temo che quel giorno si possa allontanare ulteriormente. Non servono altri interventi normativi per contrastare e ridurre le discriminazioni, occorre un percorso di cambiamento culturale, che non realizzi con la bacchetta magica di una innovazione al codice. Personalmente l’unico strenue impegno deve essere rivolto a rendere effettiva quell’uguaglianza, quella pari dignità sociale e davanti alla legge, senza distinzioni di alcun tipo, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale. Una società in cui si frappongono muri e si affievoliscono le pari opportunità, non potrà in ogni caso raggiungere obiettivi più ampi e scardinare le radici di discriminazioni e violenze. Come donne dovremmo saperlo e cercare di non farci portare altrove.
Perché c’è sempre chi cerca di riportarci mille passi indietro. Chi non rispetta l’iter della giustizia e a media unificati e consenzienti sparge il suo verbo velenoso in cui rimbomba ancora una volta il consueto “Se l’è andata a cercare”, era consenziente, e via con un processo alla vittima, cronometro alla mano per misurare quanto ci ha messo a denunciare. Sempre lo stesso film patriarcale, condito da quintalate di fango, da una gragnola di colpevolizzazione per colei che ha subito violenza. Non siamo ancora in grado di comprendere cos’è uno stupro e di vederne tutte le conseguenze e le radici profondamente intersecate con la nostra cultura e sul modo in cui rappresentiamo le donne nella nostra società. E cosa resta, dopo innumerevoli volte in cui abbiamo trattato così le donne che decidevano di denunciare? Cosa resta nell’immaginario collettivo? Secondo voi cosa si consolida? Cosa si trasmette? Periodicamente assistiamo alla stessa ricostruzione, uno stupro all’italiana, come da una vignetta di Anarkikka. La ragazza di Melito Porto di Salvo, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, Franca Viola. La storia italiana è attraversata da violenze, stupri, con le comunità e il Paese spettatore e in alcuni casi anche sostenitore di una narrazione che minimizza, assolve, nega, annacqua, svia, dimentica chi perpetua la violenza, lasciando le vittime a dover affrontare processo e rivittimizzazione secondaria. Qualcosa di cui dovremmo sentirci tutti/e responsabili e che dovremmo respingere con forza una volta per tutte.
“Il pregiudizio che ricade sulle donne vittime di violenza è che siano in qualche modo corresponsabili di quello che hanno subito. Nelle aule dei tribunali la linea difensiva per gli uomini violenti tratteggia le vittime che, con i loro comportamenti, hanno favorito, stimolato, meritato la violenza. Le donne si trovano così sotto processo: imputate invece che tutelate. Una seconda violenza che si somma alla prima, amplificando il dolore, mortificando la vittima.” (p. 12 “Smettetela di farci la festa”)
L’Italia è più o meno la stessa di quando andò in onda Processo per stupro nel 1979, anno in cui nascevo. A volte mi sembra di vivere in una sorta di realtà congelata, passano gli anni e i decenni, ma la cultura è sempre ferma a quegli stereotipi, a quelle rappresentazioni di oggetti e fenomeni sociali, le stesse considerazioni, le medesime parole, gli stessi ragionamenti, le stesse strumentalizzazioni. Il potere e il dominio maschili si perpetuano autoassolvendosi e con prassi intimidatorie nei confronti delle donne, parlano agli altri sodali, li adunano per farli sentire parte del gruppo egemone, che detta le regole. Questo meccanismo per cui ci si sente al di sopra di tutto e sotto traccia permea ogni anfratto di questa società, si insinua e controlla perché nulla cambi. Perché uno stupro funge all’uopo come strumento di battaglia politica, quando poi nella pratica da anni allevi in seno lo stesso morbo e sei disposto a soprassedere su esternazioni dei tuoi dello stesso tenore, espressione della stessa cultura dello stupro e della violenza maschile contro le donne.
Ed ancora una volta sembra avere la meglio chi ha più voce, potere, capacità di monopolizzare la comunicazione, contaminare ogni cm di opinione pubblica, spargere e riaffermare quello sterco di cultura patriarcale.
La violenza sessuale non è più reato contro la morale dal 1996, ma la persona che la subisce tuttora non è sufficientemente tutelata, sostenuta, creduta e protetta. Abbiamo portato a un anno la possibilità di querela in caso di violenza sessuale, proprio per consentire alle donne di prendersi tutto il tempo necessario per avere la forza ed intraprendere un iter giudiziario, proprio perché sappiamo quanto sia complessa e personalissima questa decisione. Ma ricadiamo sempre a giudicare il tempo di denuncia, sul perché ci ha pensato tanto, perché e solo perché in capo a chi quella violenza l’ha subita. Piuttosto che soffermarci su chi poteva scegliere di non commettere quella violenza ed invece si è reputato onnipotente e scevro da ogni colpa, perché connaturato al suo presunto istinto maschile predatorio. I soliti stereotipi, la solita cultura, che si alimenta anche attraverso genitori che sono sempre pronti a giustificare i rampolli, anzi li educano sin da piccoli a mostrare i tratti di quella cultura, esibendo tutto ciò che rientra negli stereotipi del macho doc. E se non si interviene sulla cultura e sui modelli di comportamento, a nulla serviranno norme e pene. Si deve lavorare sulla prevenzione. Soprattutto sulla pratica quotidiana che rifiuti ogni genere di violenza, odio, in qualunque forma e contesto. Basta a dare spazio e agibilità a chi continua a replicare quei modelli tossici contaminati da stereotipi di genere.
Si è scelto di rendere la querela di parte irrevocabile proprio per evitare che “sotto pressione” si fosse portate a ritirare la denuncia. Ma noi siamo fermi a sentenziare sul perché sia ancora tanto difficile denunciare, senza nemmeno provare a immedesimarci in queste donne, schiacciate tra i tempi lunghi della giustizia e il tritacarne mediatico che segue.
L’agenda politica ha da anni dato poco rilievo alle evidenze portate dal femminismo, anzi probabilmente coloro che se ne sono strumentalmente ammantate per opportunità politica hanno fatto più danni che altro. La sensibilità sincera non si costruisce in un lampo e infatti i risultati si vedono. Le azioni che si sono poi concretizzate sono piccole gocce rispetto al mare di questioni che da anni vengono sollecitate. Solo per fare un esempio: il depauperamento dei servizi socio-sanitari territoriali, tra cui i consultori pubblici. Oggi in pandemia scontiamo i risultati di questo allarme inascoltato, tra tanti altri. Quante resistenze a parlare nelle scuole di contrasto alla violenza e alla discriminazioni contro le donne? Quanta poca attenzione c’è per un investimento in educazione e cultura? Così si rinvia all’infinito, si consolidano e si trasmettono alle nuove generazioni modelli, stereotipi, abitudini, linguaggi, comportamenti che dovremmo mandare al macero una volta per tutte. Non ci sono strumenti in grado di parlare a tutti e tutte? Stefania Spanò ha creato Anarkikka per questo, per raggiungere efficacemente la maggior parte di noi, per catturare la nostra attenzione, portarci a riflettere e a interrogarci, cercare risposte, creare cambiamento, in modo attivo, giorno dopo giorno.
Per approfondire, qui un incontro dell’Associazione SiCura con l’autrice Stefania Spanò e Dale Zaccaria, scrittrice e giornalista.