In una società in cui i figli non ci sono, la situazione pandemica ha presentato relazioni di genere mediamente paritarie e nei casi di donne single, addirittura moltissime hanno espresso pareri entusiastici rispetto al home-working.
Neil Howe e William Strauss sono i due storici che per primi hanno parlato della generazione dei millennial, etichettando i nati dal 1982 al 2004. Negli anni successivi sono stati in molti a modificare la forchetta di quella che si indicava come generazione Millenials: dalle autorità che hanno predisposto il censimento americano, alla azienda Millennial Marketing, passando per il dizionario Merriam-Webster per finire con Wikipedia.
Il Pew Research Center, attivo nei sondaggi e nella ricerca demografica, ha riclassificato il limite che divide i millennial dai post-millennial, anche con l’intento di fare chiarezza sui termini, spesso usati in modo sconclusionato da media, ricercatori e aziende.
I millenials sono coloro nati tra il 1981 e il 1996 (oggi 25 – 40) e nel mondo sono circa 2,3 miliardi.
I due anni di riferimento non sono casuali, ma scaturiscono da una serie di considerazioni di tipo politico, sociale, economico. Uno dei fattori chiave che accomuna tutti gli studi sui Millennials, anche quando il range temporale individuato risulta molto diverso, è, per esempio, quanti anni avevano l’11 settembre del 2001: dando per buono il criterio utilizzato dall’istituto di ricerca, i Millennials avevano allora tra i 5 e i 20; ciò significa che erano grandi abbastanza – continuano dal Pew – per comprendere la portata storica dell’evento che stavano vivendo.
Da dove deriva e cosa significa l’espressione Millennials? L’ipotesi più accreditata è che faccia riferimento al fatto che i primi anni del 2000 sarebbero stati quelli in cui la maggior parte dei Millennials avrebbe finito un percorso di educazione superiore (la high school, più nello specifico, considerato che il termine fu coniato, ed erano gli inizi degli anni Ottanta, da dei demografi americani, ndr).
In Italia, secondo l’Istat, i cosiddetti millennials, cioè i ragazzi e le ragazze che sono diventati maggiorenni nel nuovo millennio (dal 2000 in poi) sono circa 11,2 milioni.
In questi ultimi anni sono protagonisti di ricerche e studi che provano, in tutti i modi, a ingabbiarli dentro schemi utili a studiarli come target di consumo ma anche per cercare di comprendere chi siano veramente questi giovani multiculturali, istruiti più di quanto non lo fossero i genitori e la prima generazione ad avere davvero una piena familiarità con ambienti e tecnologie digitali.
Sono anche nati viaggiatori. Per loro i confini geografici non esistono più: contano le reti, cioè la comunità con cui, anche a migliaia di chilometri di distanza, condividere esperienze. Il low cost ha fatto il resto.
I Millenials fanno parte della generazione delle tre C:
- Connected, cioè connessi in Rete e con tutto il mondo;
- Confident, hanno grande fiducia in se stessi, vogliono emergere e avere visibilità; la grande stima che hanno in loro stessi e la voglia di emergere fanno pensare ad una generazione di ragazzi un po’ cinici e in forte competizione l’uno con l’altro
- open to Change, aperti al cambiamento.
“Non solo perché mediamente sono ragazzi curiosi e flessibili, ma perché provano strade diverse e trovano soluzioni sorprendenti a un problema”, spiega Alessandro Rosina (ordinario di demografia all’Università Cattolica – coordinatore dell’Osservatorio permanente sui giovani dell’Istituto Toniolo – Saggista).
Lo dimostra il numero delle start up innovative create dai giovanissimi: più di 5.000 stando al Registro delle Imprese.
E allora perché continuiamo a considerarli pigri e narcisisti?
“Perché è sempre difficile, per le generazioni precedenti, fare i conti con sfide, opportunità e rischi diversi da quelli che ha vissuto” spiega Alessandro Rosina. “Specie con i millenials, che sono cresciuti in scenari politici, condizioni economiche e sociali lontani da quelli validi fino alla fine del Novecento”, continua l’esperto.
Con l’acuirsi della precarietà giovanile, uomini e donne di governo, per esorcizzare la responsabilità di una politica impotente, hanno ricondotto perfino la deprivazione economica dei giovani a un’inadeguatezza soggettiva; sintetizzata nelle etichette di “bamboccioni”, “choosy”, “sfigati”. Sono passati diversi anni dalla celebre frase del ex Ministro Padoa Schioppa “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa “ ma la situazione non sembra essere cambiata.
I dati del 2° Rapporto Auditel-Censis ci dicono che in undici milioni e 351.000 famiglie italiane (il 46,7% del totale) convivono genitori e figli, e questi ultimi in due milioni e 643.000 casi (il 10,9% delle famiglie italiane) hanno più di 30 anni, per un totale di tre milioni e 89.000 figli over 30 che abitano con la famiglia di origine .
I dati, in realtà, rivelano una situazione meno drammatica di quello che si potrebbe immaginare: infatti, il 63,1% degli over trentenni che rimangono in famiglia ad oltranza lavora, e la maggior parte appartiene a nuclei che si collocano in fasce socio-economiche elevate (43,9%) o medie (29,8%).
Questi dati testimoniano come in Italia il problema dei giovani non sia solo quello di trovare un lavoro, ma anche quello di riuscire a trovare un’occupazione che dia loro un reddito sufficiente per affrancarsi dalla famiglia di origine. Le famiglie in cui si rimane a lungo sono più numerose della media Italia (hanno in media 3,1 componenti), si trovano soprattutto al Sud e nelle isole (40,5% del totale) e hanno un capofamiglia che nel 70% dei casi ha un titolo di studio che non supera la licenza di scuola media inferiore.
Per questi eterni giovani rimanere con la famiglia di origine significa assicurarsi il mantenimento di una situazione di relativo benessere piuttosto che andar via ed essere costretti a scendere di un gradino nella scala sociale dovendosi barcamenare tra affitti, mutui, lavoretti e incombenze domestiche.
“Mediamente le ragazze millenials sono molto più determinate dei loro coetanei maschi e hanno grandi aspettative di realizzazione personale, sia nel lavoro sia nel privato”, spiega ancora Alessandro Rosina.
Chi sono dunque le cosiddette Millennials italiane?
Le racconta Paolo Crepet, noto psichiatra e sociologo, in un capitolo a loro dedicato nel suo ultimo libro “Il coraggio”.
Come sono le ragazze di oggi?
“Sono libere veramente. Tendenzialmente sono più simili ai loro coetanei maschi, che alle loro nonne. E questa è un potente cambiamento, a livello di sessualità, di occasioni, di scelte. Le pari opportunità sono diventate una realtà per le adolescenti in gran parte dei Paesi occidentali. Dopo anni di lotte, i diritti delle donne hanno conquistato, in modo graduale, un consenso diffuso, ma è solo a partire dalle ragazze di oggi che possiamo affermare che un risultato autentico sia stato ottenuto.
Dall’ideologia si è passati alla pratica e questo ha permesso alle ragazze di vivere come nessuna di quelle donne straordinarie avrebbe mai potuto auspicarsi. Questo è un buon punto di arrivo di questa marcia iniziata negli anni ’50, dove si è conquistato molto, ma di cose ce ne sono ancora da fare.
Il futuro è legato proprio al coraggio di queste ragazze, che dovranno completare l’opera”.
Sono quasi 7 milioni, hanno caratteristiche molto diverse dalle loro madri o zie: 4 su 10 lavorano (42%, circa il 20% in più rispetto a venti anni fa), il 16% lavora in casa, alcune per costrizione (difficoltà a trovare un lavoro) altre per scelta (1 milione di giovani donne under 35, erano circa 800 mila a metà anni Duemila).
Sempre secondo il Pew Research Center il 71% delle giovani Millenials ha una occupazione, contro il 26% che non partecipa alla forza lavoro.
L’Italia purtroppo, a fronte di un piccolo passo avanti, rimane uno dei paesi con i valori più bassi d’Europa (49,3% contro una media del 62,4%). Penultima dopo la Grecia.
Inoltre nella fascia tra di età tra i 25 e i 34 anni si posizionano le neet, che non studiano e non lavorano (è inattiva una giovane su tre).
Registrano un livello di istruzione più alto rispetto al passato. 7 su 10 hanno una (o più di una) laurea (21,5%) o sono diplomate (63%). Chi lavora si sente apprezzata e appagata (grado di accordo 7,5 su 10) e nella vita considerano intelligenza e competenza molto più importanti della bellezza (con un grado di accordo di 8,6 su 10).
Per rendere onore a questa generazione così insolita e stimolante, AssoBirra ha lanciato nalcuni anni fa “Birra, io t’adoro”: una campagna di comunicazione (la prima dopo quella storica con Renzo Arbore), un blog e 5 profili social per spiegare alle giovani adulte che il consumo di birra può essere compatibile con uno stile di vita moderno, equilibrato ed attivo. A patto di farlo – conoscendo meglio il prodotto – con moderazione e responsabilità.
(La campagna di AssoBirra “Birra io t’adoro” ha vinto il premio nella categoria affissioni di Immagini Amiche, campagna dell’Unione Donne in Italia (UDI) e l’Ufficio d’Informazione in Italia del Parlamento Europeo, “per aver abbandonato il clichè che fin dagli anni ’60 identificava la birra con la donna”.)
La ricerca Doxa/AssoBirra “Una generazione che non si era mai vista. Donne che amano la birra”, realizzata su un campione di 500 donne rappresentativo della popolazione nazionale tra i 18 e i 35 anni, mostra una inedita e per certi aspetti sorprendente fotografia che racconta valori, passioni, abitudini e stili di vita delle “native digitali” italiane.
Non possono essere definite bamboccione o “lost generation” e nemmeno “generation me”, (l’espressione Generation Me vuole sottolineare la maggiore assertivita e fiducia in se stessi rispetto alle generazioni precedenti) perché anche se la crisi globale ha posto un limite alle loro ambizioni, le millenials italiane hanno le idee chiarissime sul loro futuro: 4 su 10 progettano di andare a studiare o a lavorare all’estero.
Se si chiede alle under 35 cosa conta di più nella vita, al primo posto figura la famiglia (92%), seguita dal lavoro (63%). Ma poi se gli si chiede più concretamente quali progetti di vita hanno per i prossimi 3 anni il pragmatismo fa invertire questo sistema “emotivo” di valutazione: il 43% pensa di andare a studiare o lavorare all’estero (ma saliamo a oltre la metà del campione tra chi non ha un impiego), mentre solo il 27% programma di sposarsi, andare a convivere, o avere figli.
Questa tendenza delle donne di posticipare il matrimonio è una tendenza internazionale.
Solo 1 su 10 pensa di sposarsi o mettere su famiglia a breve termine, anche se la sfera affettiva resta al primo posto della loro scala di valori.
Nel 1965 l’età media per il primo matrimonio era 21 anni per le donne, 23 per gli uomini. Nel 2017 l’età è salita a 27 per le donne e 29,5 per gli uomini.
In particolare solo il 12% programma di avere un figlio nell’arco del prossimo triennio (mentre venti anni fa questi valori erano attorno al 17-20%).
Sintomatico anche il sogno di trasferirsi in un paesino di mare, che accomuna il 43% delle nostre connazionali under 35. Fra tutte queste giovani donne c’è un desiderio di fuga dai problemi del presente che prende forma di un luogo idilliaco in cui vivere: il 43% sceglierebbe un paesino in riva al mare (con punte del 49% tra le 26-35enni che vivono nel Nord Est) o al limite in una piccola cittadina di provincia (26%) mentre solo il 15% si sente attratta da una grande città.
Impossibile inquadrarle anche nei soliti stereotipi di genere: 3 giovani donne su 10 confessano di fare cose una volta considerate prevalentemente “da maschi” come bersi una birra con gli amici o parlare con passione di economia e politica…
E anche se sono “native digitali”, 8 su 10 rinuncerebbero senza problemi allo smartphone o al social network preferito ma, per loro stessa ammissione, non potrebbero mai rinunciare a “due chiacchiere con gli amici” (61%), a “un libro, la mia musica, un buon film” (52%) ma anche al proprio “piatto preferito” (26%).
Facendo in questo modo scivolare molto più in basso attività come lo shopping (comunque al quarto posto) l’estetista, i massaggi ma anche l’interesse per oggetti simbolo del presente ipertecologico (smartphone, tablet) o il social network preferito (che per inciso è Facebook, al 54%, seguito da YouTube, 11%), che figura all’ultimo posto…
Potendo cambiare il mondo con la forza del desiderio, le Millennials italiane vorrebbero una società senza violenza nei confronti delle donne (74%), senza corruzione della politica (53%) e disoccupazione (49%). Rinunciando di fatto ad accendere i riflettori ancora su battaglie simbolo delle generazione precedente (disparità uomo/donna sul lavoro e non equa suddivisione dei carichi famigliari), che insieme non raccolgono nemmeno il 30% delle indicazioni. E su questo ci sarebbe da indagare.
E l’amore e la seduzione? Per conquistarle, al primo posto mettono l’intelligenza (96%), al secondo la simpatia (85%) e a seguire la “classe” (63%), un misto di stile e galanteria che conquista molto di più delle caratteristiche fisiche (41%) o peggio, di regali o gioielli (4%).
Dunque per sedurle, ci vuole intelligenza e stile.
Subito dietro famiglia e lavoro, al terzo posto tra le cose che contano di più nella vita per loro c’è il desiderio di “stare in forma e mangiare sano”, che è l’imperativo di 1 donna su 3 (34%).
Manca in questa ricerca, probabilmente perché un pò datata, l’aspetto della attenzione ai temi dell’ecologia e della green economy.
La domanda ora è: cosa è successo a queste donne millennials durante la Pandemia da Covid-19?
Nel blog Generation mover Isabella Pierantoni riporta i risultati di una serie di interviste fatte su un cluster tutto al femminile di età tra i 30 e i 45 anni, in sostanza di donne al lavoro, appartenenti a generazioni Millenials e Generazione X.
Lo scenario si riferisce in maggioranza al territorio lombardo e veneto e, in misura minore, territorio toscano, ligure, piemontese. Inoltre la ricerca si giova di confronti e scambi di opinione con associazioni femminili nazionali e non.
La maggioranza delle donne intervistate in età 35/45 con bambini in età scolare, ha dichiarato un difficoltà oggettiva nell’esercizio del proprio ruolo multitasking , durante il periodo di home-working a causa del Covid-19: per lo più vivono in spazi familiari spesso insufficienti e con scarsa tecnologia disponibile per tutti i componenti familiari.
Una doppia schiavitù dover far fronte alla gestione della casa, dei figli e del lavoro contemporaneamente.
E’ parso normale, a molte donne, che l’uomo avesse il diritto alla tranquillità per il proprio lavoro (magari in cambio di avere a disposizione la cucina e la sala per avere maggiore spazio per sé e per i bimbi).
Alcune sono ricorse ad acquisti immediati delle “postazioni” con annesso tutto il necessario, poiché appare chiaro che il sistema di lavoro erroneamente oggi definito smart-working si evolverà in un modo di vivere (e convivere) più ampio e definitivo.
La presenza delle babysitter, dei nonni, degli aiuti per i lavori in casa sono improvvisamente sembrati come aiuti sostitutivi alla sola assenza delle donne dunque, assenti tali figure, la situazione si è riversata totalmente sulle spalle delle donne.
Anche se la Lombardia ha una leadership importante nella valorizzazione e promozione della carriera professionale femminile possiamo dire, senza timore di smentita, che in generale in Italia le donne hanno sviluppato e alimentato, nel tempo, una sorta di autoinganno riferito alla propria indipendenza, crollato nel giro di poche ore con l’arrivo di Covid-19. Autoinganno che le ha riportate, in alcuni casi, a una re-impostazione organizzativa quasi arcaica della propria vita, in particolare nelle donne che hanno figli in età scolare.
L’arrivo del Covid-19 ha attuato un automatismo tale per cui, nel giro di poco tempo, c’è stata una regressione delle donne verso i doveri primari: farsi carico del “tutto” come regola del gioco. Per molte donne è così da tutta la vita, per alcune il copione è riapparso con l’arrivo della pandemia.
Nelle situazioni in cui i figli non ci sono, la situazione ha presentato relazioni di genere mediamente paritarie e nei casi di donne single, addirittura moltissime hanno espresso pareri entusiastici rispetto al home-working.
La variabile presenza o meno di figli è dunque influente.
E qui entriamo nel tema della fragilità del sistema di welfare italiano di cui ho parlato lungamente nei miei articoli precedenti.