Un uomo, una donna e un giardino
Colloquio con Abdellah Taïa
Che cos’hanno in comune un intellettuale marocchino, quarantenne e omosessuale, e una signora francese, anziana e bianca? Il fatto di vivere a fianco a fianco in un quartiere elegante dal quale non vengono accolti; di scontrarsi con le rispettive nevrosi, che trasformeranno la loro amicizia in dramma; di essere emarginati da una società al tempo stesso diffidente e frenetica, mentre soltanto la vita lenta permette d’instaurare rapporti autenticamente umani. Momenti di poesia umile li definisce Abdellah Taïa, che di questa vicenda è narratore.
E proprio La vita lenta è il titolo del suo romanzo, pubblicato in Italia dal Funambolo (€ 16,50). “Dopo gli attentati che nel 2015 hanno sconvolto la Francia – esordisce Taïa – tutti gli arabi, come il protagonista Mounir, sono considerati individui pericolosi. Puoi amare Fragonard, essere un frocio [in francese pédé, n.d.A.] e vivere appartato, ma basta un momento di tensione per vedersi trasformato in presunto terrorista”. È quanto accade a Mounir, che al culmine d’una lite furibonda quanto banale con Madame Marty, sua vicina di casa, arriva ad augurarle la morte e viene per questo denunciato. Di qui un viaggio allucinante dove passato e presente s’intrecciano, e le persone, i rapporti, perfino le cose si de-realizzano, assumono simbologie divergenti e talora opposte, nella disperazione e nella dolcezza, nell’incomunicabilità e nell’empatia. Un romanzo di rottura o, forse, che procede per rotture, dove ogni pagina svela un’urgenza di sincerità.
“Il significato del libro è contenuto nel primo dei due finali – puntualizza l’autore – . Mounir ha bisogno di qualcuno che parli al suo cuore. Gli serve un incontro; la vita lenta è, appunto, il luogo dove ci si può incontrare. Non importa se materialmente, nell’aldilà o nella morte… La vita lenta non è una vita vuota, ma l’ingresso in un giardino sconosciuto per vivere un amore nuovo, o rinnovato; assaporarne il piacere. Ma questo giardino si conquista dopo aver superato prove dure e dolorose, come appunto accade a Mounir”.
– Non è un romanzo “accomodante”. Sembra quasi scritto per una sola persona.
“Io non intendevo redigere un saggio politico o sociologico sulla condizione degli immigrati arabi in Francia. Scrivo perché mi sento intensamente unito alla vita, in modo viscerale, isterico, paranoico. M’importa la vita bruta, che è sempre sorpresa e stupore”.
– È possibile definire Mounir e Madame Marty una coppia, sia pure sui generis?
“Sono assolutamente una coppia! Imprevedibile, come tutte le coppie. Non però improbabile: tra i due si crea un’intesa profonda malgrado si feriscano reciprocamente, dimenticati dalla Francia che non sa cosa farsene d’una vecchia povera, non più efficiente né sexy, e d’un arabo solitario e incasellabile, sessualmente e culturalmente. Nel finale, Madame domanda a Mounir: vuoi vivere? Di queste esistenze contraddittorie e affascinanti il mondo è pieno, ma ben pochi se ne accorgono”.
– Contraddittorie e affascinanti come quelle che Mounir incontra nella periferia profonda…
“…trovando un altro giardino, una pausa di lentezza popolata d’invisibili – immigrati, neri, prostitute cinesi… – dall’enorme carica umana. Uno dei momenti più intensi per Mounir è la scoperta d’una panetteria gestita da tre ragazze velate, vera e propria oasi di poesia, comprensione, indulgenza, rispetto senza giudizio. Tentativi d’amore a onta di qualsiasi luogo comune: ‘Ah, tu porti il velo, quindi non sei libera! – Ah, tu sei dell’altra sponda, non puoi entrare qui…’. No! Non è scontato, è molto più di così, totalmente diverso da così. E non descrivo un’utopia, neanche un desiderio: le persone accoglienti esistono, vanno ben oltre le apparenze, ma il sistema – politico, religioso, economico – ha interesse a occultarle, a dividerle le une dalle altre per manipolarle più facilmente”.
– Non semplici pregiudizi, dunque, ma un piano ben orchestrato.
“Senza dubbio. Le società occidentali si sono illuse d’aver chiuso i conti col proprio passato colonialista e razzista, senza però averlo compiutamente rielaborato. E nei periodi di frizione, come l’attuale, gli antichi fantasmi riemergono, alimentati da una politica smemorata e truffaldina”.
– Colpisce l’assoluta naturalezza delle tre ragazze, e della stessa Madame Marty, di fronte all’omosessualità del protagonista. Ricordo, a tal proposito, la frase d’un ragazzo mediorientale conosciuto oltre trent’anni fa: “Non sono diventato ‘così’ da quando vivo in Francia”…
“Nei paesi arabi l’omosessualità esiste ed è praticata, nonostante i divieti religiosi, lo stigma sociale e una legislazione punitiva. Ma il modo di percepirla è molto diverso rispetto all’Occidente. Non bisogna limitarsi alle dichiarazioni pubbliche, o meglio, occorre capirle. Gli arabi distinguono fra omosessualità ‘naturale’ – o spontanea – descritta anche in letteratura, e omosessualità come categoria politica, nata nel XIX secolo in Occidente in opposizione all’eterosessualità. In seguito si è poi sviluppata la cultura/identità gay. Ed è quest’ultima a venir rifiutata. Gli arabi avvertono un certo tipo di teorizzazione, di categorie politico-intellettuali, come estraneo alla loro cultura. È questo che intendeva il tuo amico…”.
– L’omosessualità, per Mounir, è un tratto distintivo ma non esclusivo. Le sue relazioni – fugaci o durature, reali o sognate, sentimentali o sessuali – non sono mai prive di momenti melanconici, pur tra spigolosità e durezze. Richiamano l’ambiguità dell’amore, che non è solo sublimazione ma sopraffazione e scontro. Spia del nostro limite, biologia, sopravvivenza, frontiera… o “semplice” modo per restare umili, legati alla terra, attratti e insieme disorientati dall’alterità del/la partner.
“Hai parlato di sopravvivenza, e in effetti Mounir sviluppa tecniche inopinate per cavarsela, dalle aggressioni fisiche in Marocco e dall’isolamento in Francia, illusoria patria della democrazia e della libertà. Dalle sue stesse zone d’ombra: reagisce con violenza spropositata alle querimonie di Madame, commette una serie d’imprudenze che peggiorano la sua situazione agli occhi delle forze dell’ordine. Ma anche la sua amica/rivale deve fare i conti con un passato torbido, l’incubo d’una sorella accusata di collaborazionismo coi nazisti, l’abbandono da parte del figlio… Ognuno di noi è un impasto di bontà e cattiveria di cui i rapporti d’amore costituiscono la quintessenza e l’esemplificazione”.
– La vita lenta è un romanzo claustrofobico, non tanto per l’ambientazione in luoghi prevalentemente chiusi, ma per l’insistenza sui corpi e i volti; fosse un film, abbonderebbe di primi o primissimi piani. E per questo, paradossalmente, poco cinematografico e molto pittorico. Se dovessi dargli un colore, penserei al grigio. Sei d’accordo?
“Beh, le zone grigie sono le più complicate e sfuggenti. Siamo tutti eccezioni, come dicevo. Lo si nota proprio nel tormentato rapporto con Madame, origine di tutti i guai di Mounir e, nel contempo, sua compagna e complice. È lei a denunciarlo alla polizia, ma al ritorno dall’interrogatorio gli fa trovare una pentola di zuppa fuori della porta. Il grigio indica l’ambiguità; e l’ambiguità pervade la letteratura perché rende i personaggi interessanti, salvandoli dall’idealizzazione”.
– La domanda sorge spontanea: perché non scrivi in arabo?
“Sono nato in una famiglia molto povera e completamente arabofona. Fino a 19 anni mi sono espresso soltanto in arabo. Il francese era la lingua dei dominatori e dei marocchini ricchi, chi non la conosceva veniva confinato ai margini della società. Per uscire dalla povertà, morale e culturale, non mi restava quindi che padroneggiare questa lingua, vendicarmene, reinventarla. Non l’ho scelta come lingua della libertà, di Rimbaud o Genet o Victor Hugo… Autori che adoro ma non rispecchiano il mio immaginario, che è e resta arabo. I libri, si dimenticano; servono a scandagliare il cuore della vita, ma sei poi tu che la possiedi e ne sei posseduto. Quanto ho appreso in termini di trasgressione, autonomia e creazione non proviene dagli scrittori ma da mia madre, dalle mie sorelle, dalle prostitute del mio quartiere. Dalle tante Madame Marty che vivono anche in Marocco e verso le quali provo una grandissima tenerezza.
– Madame Marty per Mounir, tua madre e le tue sorelle per te: sembra proprio che senza le donne non si sia letteratura…
“Le donne sono le escluse per antonomasia, assieme agli ubriaconi, i carcerati, i poveri… Mia madre è capace di momenti di autentica poesia, sa cosa significhi la trasgressione, la fatica e l’astuzia della sopravvivenza. E la solitudine. Io vivo solo, solo, solo! Non amo chi mi ripete: amen, amen. I rapporti profondi non sono basati su logiche di mercato, l’altro non deve ‘servirmi’. Il romanzo comunica la verità attraverso gesti concreti, donare un fiore, aiutare una persona anziana al supermercato… Nella mia sintassi cerco di dare l’idea del ritmo, dei passi sulla strada, sempre uguali e sempre diversi, perché si progredisce, si soffre e si cresce”.
(foto di ©Abderrahim Annag)
Nato a Rabat nel 1973, Abdellah Taïa ha pubblicato numerosi romanzi per Seuil, tradotti in Europa e negli Stati Uniti, fra cui ricordiamo “Une mélancolie arabe (2008, edito in Italia nel 2020 col titolo “Melanconia araba”), “Le jour du roi” (“Ho sognato il re”, 2010-12, Prix de Flore 2010), “Infidèles” (2012), “Un pays pour mourir” (2015) e “Celui qui est digne d’être aimé” (2017). I suoi romanzi sono stati selezionati più volte per i premi Goncourt, are audit e Medici. Nel 2014 ha girato il suo primo film “L’Armée du Salut” (“L’Esercito della Salvezza”, Gran Premio del Festival di Angers), tratto dal romanzo eponimo. La pellicola è stata selezionata alla Mostra del cinema di Venezia e ha ottenuto numerosi riconoscimenti internazionali.