In fondo è giusto così: pubblicare un brano come “Rubini” alla fine di agosto ha permesso a Mahmood – che ne è autore e interprete accanto a Elisa – di non banalizzarlo fra i tormentoni estivi.
“Rubini” infatti è una canzone vera, orecchiabile ma non ruffiana, soprattutto nelle strofe, e “seria”: brevi quadri sull’adolescenza da parte di chi ne è uscito pur mantenendone vivo il ricordo, o gli strascichi, le pulsioni e i dolori. Rispetto a “Gli Anni”, firmato dal corregionale Max Pezzali 25 anni fa, concede ben poco alle facili nostalgie: l’adolescenza non si riduce alle fughe in motorino o agli amici eterni ma spazia in solitudini infinite, acide incomprensioni e ribellioni senza causa (titolo originale di “Gioventù Bruciata”, usato da Mahmood per il suo primo EP). Castelli di rabbia, spesso fantastici alla maniera di Baricco, ma reali, accanto a momenti d’incommensurabile bellezza.
La voce di Elisa aggiunge la sensibilità femminile, talora simile a quella del ragazzo, altrove così diversa, più raccolta, pacata ma anche perturbante: già una piccola donna. “Ghettolimpo”, album-crasi da cui “Rubini” è tratto, si protende verso nuovi lidi dopo aver ammassato le prime, contraddittorie esperienze di vita. Contenitore policromo, l’ultimo lavoro di Alessandro osa una formula letteraria, quella del disco-concept, molto in voga negli anni ’70 e oggi completamente perduta perché si vive solo a lacerti, sprazzi monadici senza futuro, privi di sintesi appaganti. “Dèi”, la prima traccia, è manifesto programmatico, affabulazione, calembour, una Grecia-manga, non avamposto d’Occidente ma fusione con l’Africa, con lontani echi di Hafez Nazeri; il pezzo eponimo, corredato da un video in cui la Sardegna – una delle tante “matrie” del cantautore – si mischia col Sahara, esordisce con un balsamico vocalizzo a cappella alla maniera di “Mustapha”, outtake di Freddie Mercury (1979).
Le campane della chiesa ricordano il richiamo del muezzin, e fra essi non c’è contrapposizione bensì continuità; diremmo fluidità, se questo termine oggi non fosse così abusato e frainteso; mentre Mahmood non è fluido ma poliforme, e ogni tentativo d’incasellarlo nelle tassonomie del gender appare goffo e pretestuoso. Tutto si tiene perché sinceramente vissuto, ogni tanto pretenzioso: è il caso di “Inuyasha” che qualcuno ha giudicato “un ‘Rapide’ in tono minore”. Ma dopo “Rapide”, ormai lo sappiamo, nulla è più lo stesso. Si sarebbe francamente fatto a meno di “Dorado”, in particolare nella versione assieme a Sfera e Feid – quella singola è già più intrigante – mentre ci rammarichiamo che un gioiellino come “Sabri Aleel”, ascoltato nella “Notte della Taranta” 2020 e recuperato nell’ultimo album del maestro Buonvino, sia rimasto escluso dalla raccolta.
Il resto, dal santur di “Baci dalla Tunisia”, brano non eccezionale ma con coda trasognata, a “Klan” e “Kobra”, ballabili dalla nudità non volgare, tonica senza aggressione, maschilefemminile, EuropAfrica, è, comunque, ricerca di stabilità, anche in spazi indefiniti e arroventati (il garage di “Kobra”, avanzo di civiltà industriale, e l’essenzialismo aereo di Fiumara d’Arte per “Klan”). L’atmosfera evanescente e morbosa di “Karma” – secondo featuring, stavolta col vocione di Woodkid – potrebbe corredare alcune pagine del più recente libro di Abdellah Taïa . In “Talata” (tre in arabo), “la canzone puttanella” secondo l’autore, Mahmood si diverte a deformare la propria voce oltre a esibirsi in una sorta di bellydance sardo-egizia. Il cuore del disco, tuttavia, è “T’amo”, con quell’apostrofo antiquato e allusivo, dichiarazione d’amore onerosa e totale: la cui destinataria non può essere che la madre, presenza autentica e ombra sofferta – non sfugga l’inciso “non è facile da sola crescere chi per metà ti ricorda l’uomo che t’ha lasciato”, di vago sapore pirandelliano –, incomunicabile e vicina – rudezza sarda o differenza generazionale? Una madre-padre che non può colmare alcun vuoto (“Famiglia significa stare qua/in due, anche se è difficile”), ma rende più sopportabile l’abbandono.
Perché ognuno di noi muore sempre a sé stesso. “T’amo” rappresenta l’ennesima commistione d’un’identità svariata ma non confusa: la strofa è un monologo, o una rivelazione a mezza bocca, di quelle che scriviamo su un diario ma non renderemmo mai note a nessuno, se non nei momenti supremi; il ritornello, come una risacca, viene dalla notte dei tempi, “A Diosa” così cara ai sardi. Mahmood non esita a misurarsi col compianto Andrea Parodi poiché il brano appartiene davvero al coro del mondo. E proprio a un coro lo affida il Nostro, un coro femminile, ovviamente familiare – vi canta la cugina Antonellina – e nei concerti si frammischia a esso, voce tra le tante e al contempo solitaria. “Icaro è libero”, attraversato da suggestioni del Silvestri di “Aria” e forse il brano più “politico” del disco, nella sua dichiarata ricerca, o tentativo, di sganciarsi da stereotipi e imposizioni, chiude un lavoro complesso, rischioso o forse arrischiato, incantevole nella sua imperfezione. Se c’è qualcosa di femminile in Mahmood, è il riconoscimento delle proprie contraddizioni, la libertà di dirsi limitato, uno “Zero” che “corre nudo sotto la pioggia fluo” d’una Milano materica e stralunata, per superarsi senza prevaricare; non è facile in un mondo così violento, fatto di provocazioni fittizie e identità allo sbando, e sarebbe un peccato privarci della sua stropicciata ingenuità.