E RESI PACE AL RIPOSO PROFANATO
Perché ? Perché accadeva ?
Non l’ho mai capito. Ho tentato; ma non ci sono riuscito. Mai.
Perché non è proprio possibile comprendere il senso logico per cui una fazione armata, in guerra, debba prendere di mira i cimiteri. Distruggere le lapidi. Tirare fuori e spargere i resti dei cadaveri. Accanirsi con chi non può più costituire un pericolo. Profanare una terra sacra.
È proprio quello che succedeva. Io l’ho visto accadere: nella regione della ex Jugoslavia chiamata Косово и Метохија (Kosovo). Dove, in quegli anni, tutti combattevano contro tutti. Ovunque, di casa in casa. E nell’aria si respiravano i miasmi dell’odio etnico, delle contrapposizioni religiose, delle divisioni politiche. Si respirava il tanfo nauseante dei corpi abbandonati sui cigli delle strade.
Ma può una lotta armata avere come propri obiettivi delle tombe in cui riposano poveri morti ? Credevo che questo non fosse possibile. Sino al momento in cui l’ho visto accadere.
E l’ho visto con i miei occhi. Lì, proprio lì: in Косово и Метохија (Kosovo).
La mia professione di medico dell’Esercito Italiano mi aveva già condotto in quella regione quattro anni prima. Ero stato a Приштина (Priština), nel Comando NATO a cui era stato dato il nome di Film City perché allestito negli stabilimenti in cui, prima della guerra, si produceva il cinema jugoslavo.
In quel maggio 2004, invece, andai a prestare servizio nel Comando Multinazionale di Призрен (Prizren). A sud, nei pressi del confine con la Albania.
Da un paio di mesi la situazione era precipitata: tutte le cittadine del Kosovo erano teatro di combattimenti feroci. Tutti contro tutti, di casa in casa. Nulla era cambiato rispetto a quel che avevo visto anni prima. Nulla.
Quel pomeriggio raggiunsi la base italiana di Villaggio Italia, che era stata sistemata a Пећ (Peć), nel Nord Ovest della regione. Dove proteggevamo con le armi il monastero che dal 1316 era sede del Patriarcato della Chiesa ortodossa serba. Un luogo che racchiudeva ulteriori intrinsechi significati per me in quanto barese. Proveniente, quindi, dalla città di quel San Nicola così tanto acclamato e venerato nel mondo cristiano ortodosso.
Durante il tragitto transitammo attraverso il borgo di Belo Polje. Un villaggio di poche case, per lo più sparse attorno al cimitero.
E qui vidi. Con i miei occhi. Quel che mai avrei immaginato di vedere.
La chiesa posta all’ingresso del campo di sepoltura era completamente distrutta. Era stata data alle fiamme, di cui si udiva ancora lo scoppiettare residuo sotto i cumuli di legno delle travi crollate dal soffitto.
Nel terreno circostante quei ruderi ogni lapide di ogni tomba era stata divelta, spezzata, frantumata. Alcune di esse erano state sporcate con scritte di vernice rossa inneggianti all’UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës), l’Esercito di Liberazione del Kosovo. Ogni tomba era stata letteralmente stuprata.
Dovunque prima c’era stata una sepoltura, ai nostri occhi si mostravano voragini che apparivano come altrettanti inquietanti ingressi all’Ade.
Con raccapriccio, intravidi correre via un cane che portava nelle fauci uno scarnificato avambraccio umano, depredato da chissà quale sepolcro. Frenai a stento i conati.
Non so perché il mio sguardo si soffermò su quella tomba in particolare. Non so perché decisi di calarmici dentro. Intuizione ? Premonizione ? Non so. Ancora oggi, dopo diciassette anni non so spiegare perché ebbi la percezione che qualcosa (o qualcuno) mi richiamasse dal suo interno.
Avvisai i miei commilitoni di attendermi e mi ci avvicinai. Scostai con il piede i frammenti di lapide che ne coprivano la apertura e guardai al suo interno. Il buio non mi consentiva di vedere quando fosse profonda; per cui calciai al suo interno un frammento di marmo. Dal rumore del suo arrestarsi sul fondo dedussi che doveva essere profonda meno di un paio di metri. Decisi quindi di entrarvi. E mi calai con i piedi al suo interno, sorreggendomi con le mani sul suo bordo; finché non mi lasciai andare con un salto sino a toccare il suo pavimento.
Per prima cosa guardai in altro per verificare la posizione degli appigli nel terreno che mi avrebbero consentito di risalire. Quindi, mi voltai per esplorare il suo interno. Non feci nemmeno in tempo ad accendere la torcia, che sotto i piedi intercettai qualcosa di morbido. Feci luce. Trasalii. Si trattava di una testa d’asino (o di mulo, chissà), ancora sanguinante, poggiata sullo scheletro di chi era accolto in quel sepolcro; che dai vestiti compresi essere una donna.
Afferrai la testa dell’animale e la lanciai fuori attraverso il varco da cui ero entrato. Quindi ricomposi le membra del cadavere nel migliore e più amorevole dei modi, seppure in quelle condizioni tanto precarie. Quand’ebbi terminato, la salutai. E uscii.
Quel che accadde a quel punto non l’ho mai raccontato. Né allora, né in seguito. Lo faccio ora.
Mentre mi arrampicavo per uscire dall’interno della sepoltura, udii distintamente una voce femminile dire una parola, una sola: “Хвала (Hvala)” In serbo significa: “Grazie”.
Non mi voltai: sapevo perfettamente chi l’aveva pronunciata.
E una volta emerso alla luce del giorno, ripresi a fare il mestiere che mi ero scelto di fare.
Non c’era davvero altro da poter fare