Fenomenologia della serie più vista di tutti i tempi
Squid Game non va assolutamente fatto vedere ai minori di 14 anni ed il crescente allarme internazionale per il moltiplicarsi di episodi di emulazione dei giochi che propone lo dimostra. La sfida lancinante che la serie lancia è riservata a noi adulti.
Comincerei dalla fine, come si suol dire, rispondendo alla domanda che tanti si pongono e rivolgono agli esperti dell’età evolutiva: no, Squid Game non va fatto vedere a bambini e ragazzi al di sotto dei 14 anni come adeguatamente prescritto dal divieto. La violenza dei contenuti, il sadismo della dinamica, lo spargimento di sangue al limitar dello splatter sono traumatici e possono avere conseguenza impreviste ed imprevedibili come quelle che stiamo osservando negli ultimi giorni. A livello internazionale, con crescente preoccupazione si sono rilevati casi di emulazione dei giochi proposti nella serie, come 1,2,3 stella da parte di bambini anche della scuola primaria conclusi a schiaffi, calci e cintate ai compagni che perdono. Ciò è il sintomo di un accumulo di scorie violente che i piccoli non possono metabolizzare e che evacuano agendo l’aggressività incamerata nel gioco. Estremamente traumatica poi la situazione dei bambini che non avendo visto la serie subiscono percosse nell’ambito di attività ludiche prima di allora gioiose ed innocenti. Squid Game del resto utilizza la metafora e l’iconografia del gioco perché innegabilmente calzante e funzionale alla forte dissonanza cognitiva che l’autore della serie ha voluto provocare associando ambienti ed immagini da scuola dell’infanzia allo spargimento gratuito di sangue, alla disumanizzazione dei sorveglianti mascherati che compiono massacri, al dramma dei partecipanti che da subito sono posti di fronte al dilemma mors tua vita mea, alla asettica efficienza eliminatoria del frontman che dirige l’azione e allo sconfinato sadismo di chi si gode lo spettacolo. Il tutto con il tema di Dies irae canto gregoriano del 13 secolo, legato ai riti di morte in sottofondo, quelle quattro note, sol fa sol mi che ossessivamente si ripetono creando una atmosfera claustrofobica che assieme agli altri elementi rapisce lo spettatore precipitandolo nell’incubo. Pensiamo l’effetto allora che tutto ciò può produrre anche negli adolescenti che si trovano in un momento evolutivo in cui sono attratti fatalmente dalle sfide nonchè desiderosi di emergere nel gruppo dei pari e che possono quindi spingersi ad emulare quanto osservato procurando e procurandosi danni gravissimi. Quanto sta accadendo tra i minori di 14 anni che non avrebbero dovuto ed invece hanno visto la serie ci conferma quanto in pochi esperti, lo devo dire, denunciamo da tempo ovvero la rinuncia dei genitori alla mission educativa che dovrebbero assumere quando mettono al mondo i figli, l’incapacità tragica di dire di no alla base di una serie di problematiche educative, psicologiche e sociali che si abbattono su ciò che dovrebbe esserci più caro, i bambini ed i ragazzi che sono sempre più sofferenti. Riguardo a ciò vorrei ricordare che dal rapporto Unicef pubblicato qualche giorno fa risulta che nel mondo un ragazzo su tre, tra i 10 ed i 19 anni di età, lamenta malessere psicologico ed uno su sette convive con un disturbo psicologico diagnosticato. Ogni anno quasi 46.000 adolescenti si tolgono la vita ed il suicidio è tra le prime cinque cause di morte dei ragazzi tra i 15 ed i 19 anni. Al netto di tutto ciò Squid Game lancia agli adulti la sfida di un tema coraggioso, la spietata critica a certo capitalismo, alla modernità globalizzata, alla società performativa che poggia sulle disuguaglianze secondo l’assioma che “gli ultimi saranno gli ultimi se i primi sono irraggiungibili”. Viene abbattuta la barriera di ipocrisia a protezione di una realtà di finto progresso che conduce i più all’indebitamento e ne fa carne da macello per oligarchi annoiati magistralmente rappresentati dai ricchi che si divertono a scommettere su persone divenute cose, giocattoli, che si rompono gli uni con gli altri per il loro compiacimento nella disperata corsa verso un riscatto possibile a prezzo della vita degli altri concorrenti e per il quale sono disposti a perdere l’anima oltre che l’esistenza. Con poche eccezioni. L’allegoria potente della vita reale con cui Squid Game ci schiaffeggia, denuda davanti ai nostri occhi la spietatezza del mondo intorno a noi, con le sue risorse sempre più limitate per il cui accaparramento si sviluppa tra gli esseri umani una competizione sfrenata che non contempla caduta. Come non cogliere l’analogia tra il gioco al massacro, i ridimensionamenti aziendali, i tagliatori di teste, le folle di vecchi e nuovi disoccupati che divengono degli invisibili, dei morti viventi (socialmente parlando), appunto? Squid Game definisce e descrive questo incubo da cui cercano di sfuggire i partecipanti al gioco entrandone in un altro mascherato da opportunità dove vengono contrapposti attraverso l’illusorio egualitarismo della competizione. Si rappresenta il compimento, sovente negato, di una cultura narcisistica come descrisse Lasch quarant’anni fa in cui si celebra la soppressione della più elementare umanità con la flebile speranza che ci consegna il protagonista rimasto solo e non a caso, dinanzi al risplendere sinistro della reificazione dell’essere umano, l’uomo divenuto cosa, merce. Squid Game ci costringe a porci la domanda formulata da Zygmunt Bauman il più grande critico della globalizzazione e del consumismo in tutte le sue declinazioni: Nel dare forma alla nostra vita, siamo la stecca da biliardo, il giocatore o la palla? Siamo noi a giocare o è con noi che si gioca? Ma soprattutto è a questo gioco che vogliamo consegnare le future generazioni? Un, due, tre …stella!