Storia di una guerra sbagliata. Non poteva mancare una storia della guerra civile del secolo scorso. Raccontata da Nico Conti
Esistenza
Di Nico Conti a mio padre Giacomo e mio nonno Giuseppe.
A Pola tutto era trascorso tranquillamente fino all’estate del 1943.
Giacomo aveva controllato le provviste del bar della caserma: non mancava nulla e ne era soddisfatto.
La gestione del bar gli era stata affidata dal maggiore Arnoldo Apollonio e era molto orgoglioso di questa gestione in completa autonomia.
A diciannove anni, fare qualcosa che ti piace e non trovarsi sul fronte a sparare, era quanto di più simile a un paradiso in terra.
Istria era ancora italiana, e l’eco della guerra vera era solo un brusio assai lontano che giungeva fino a lì come il rumore di una zanzara che stava morendo, ma molto lentamente.
Si sarebbe potuto considerare che i ventiquattromila militari di ogni arma, di stanza a Pola, fossero un numero esagerato rispetto a una situazione tanto tranquilla quanto irreale.
Nel porto di Pola erano all’attracco le migliori forze navali della Marina Militare, e niente sembrava poter interrompere questa situazione così serena di inattività bellica.
Tutto ciò non aveva evitato che i sette colli della città di Pola fossero stati perforati per farne dei lunghi corridoi e rifugi sotterranei al fine di proteggere i civili, nel caso di un attacco; un evento che comunque sembrava alquanto improbabile.
Ma, qualcosa stava cambiando, proprio in quei primi giorni di un caldo settembre, dalle temperature ancora estive.
Giacomo si sorprese a interrompere il suo lavoro di preparazione della macchina da caffè, poiché i fastidiosi allarmi aerei avevano cominciato a farsi sentire, come durante tutte le ultime notti.
Forse preannunciavano che quella situazione anacronistica stesse per trovare la sua fine improvvisa e tragica.
Anche quella sera le sirene avevano suonato nuovamente, come in una ennesima esercitazione senza motivo, e senza un pericolo imminente. Così almeno pensò Giacomo.
Su richiesta di un commilitone aveva acceso la radio, mentre si accingeva a preparare alcuni caffè a chi giocava a carte.
Proprio in quel momento veniva mandato in onda il comunicato che Mussolini era stato arrestato, e che il capo del Governo, il maresciallo Badoglio, proclamava ufficialmente l’armistizio con gli americani.
Tra alcuni soldati che affollavano il bar ci fu un momento di incontrollato entusiasmo come se la guerra fosse già finita.
Invece l’8 settembre del 43 fu solo il primo segno importante che la situazione stava drammaticamente precipitando, e che si stava semplicemente assistendo alla fase più cruenta e più confusa della guerra.
Non è dato sapere di quanto Giacomo avesse coscienza del fatto che la fine del conflitto mondiale fosse ancora molto lontana. Probabilmente nessuno di loro lo immaginava lontanamente, e l’entusiasmo di quell’attimo si sarebbe rivelato totalmente ingiustificato.
Qualcuno si consolò con un caffè, qualcun altro con un brandy, una volta realizzato che l’armistizio riguardava soprattutto la parte della penisola più a sud, mentre lì la situazione stava degenerando.
L’annuncio non aveva avuto l’immediata conseguenza dell’occupazione di Pola da parte dei tedeschi, come era accaduto altrove. Ci sarebbero voluti ancora alcuni giorni ancora perché la situazione fosse fuori controllo.
Nella base di Pola ormai regnava il caos totale: ordini e contrordini si susseguivano senza coerenza.
I militari italiani in ritirata da Fiume erano giunti a Pola con la speranza di potersi imbarcare sulle navi della Marina Militare, per poter attraversare l’Adriatico e raggiungere le loro famiglie.
Le condizioni fisiche in cui versavano erano pietose, evidentemente allo stremo delle forze, e le idee sul da farsi parecchio confuse.
L’11 settembre Giacomo, e molti altri suoi compagni d’ armi, si diedero alla macchia, senza aspettare le decisioni estemporanee del maggiore Apollonio, che era decisamente in uno stato di confusione, preso tra l’idea di combattere a fianco dei tedeschi e il rischio di essere deportati nei campi di concentramento.
La vista di quei militari appiedati, affamati, in ritirata e allo sbando aveva reso ancora più chiaro a Giacomo e ai suoi compagni d’armi che era il momento di disertare e cercare di salvare la pelle, e così avevano fatto, senza neanche analizzare tutti i rischi della situazione.
Era evidente che il più grande azzardo era restare, di fronte ai tedeschi che sembravano impazziti, e che si ponevano ben pochi problemi a fare una strage o a deportare chiunque fosse di intralcio.
La gente di Pola cercava di aiutare i poveri disgraziati militari italiani che stavano giungendo dal fronte, ma presto si erano accorti che il loro numero era tale da rendere impossibile l’idea di poterli aiutare tutti.
Con i soldati allo sbaraglio, per i partigiani istriani era stato sin troppo facile farsi consegnare le armi personali e le bombe a mano, prima del generale “si salvi chi può”.
Dal porto di Pola, all’annuncio dell’armistizio tutte le navi militari erano già salpate l’otto settembre, di prima mattina, in tutta fretta.
Dietro si erano lasciati un’atmosfera di desolazione e di improvviso abbandono.
Giacomo e gli altri fuggitivi sarebbero dovuti ritornare a piedi alle loro famiglie, dato che gli automezzi oramai erano anche privi di carburante.
Nessuno di loro immaginava che quel luogo fino a quel momento così lontano dall’immagine di un terreno di guerra di lì a poco sarebbe diventato il teatro di ogni tipo di atrocità.
Giacomo, ignaro di quanto sarebbe successo nei giorni successivi alla fuga, si era lasciato tutto questo caos alle spalle e sapeva solo che doveva raggiungere il suo paese, la sua famiglia, nei pressi di Imola, a Sasso Morelli.
Si erano dispersi nella campagna a piccoli gruppi, per aiutarsi senza dare nell’occhio, lontano dalle strade principali, cercando di non farsi catturare.
Aveva impiegato una quindicina di giorni per rientrare a Imola, evitando treni e zone troppo abitate (la parte più complicata era stata oltrepassare Trieste in mano ai tedeschi).
Una volta giunto a casa sarebbe rimasto nascosto fin quando la situazione non si fosse chiarita.
Prima del servizio militare, Giacomo si era pagato gli studi distillando acqua di lavanda per i barbieri.
Aveva progettato il suo distillatore e lo aveva fatto fabbricare in vetro dai soffiatori di Murano.
Si trattava di due storte, poco più piccole di una damigiana, collegate con una serpentina in vetro di raffreddamento, di circa un metro, il tutto tenuto insieme da guarnizioni di gomma.
Prese fuori dalla scatola di legno gli elementi dell’alambicco per controllare che non ci fosse nulla di rotto e si disse che, nell’attesa che la guerra finisse, avrebbe potuto continuare a distillare e vendere lavanda, in attesa che la situazione evolvesse.
Quanto sarebbe durato ancora il conflitto? Qualche mese, si rispose, ma era troppo ottimista: i tedeschi sembravano, nonostante tutto, aver consolidato l’occupazione del nord Italia.
Dopo l’armistizio l’Italia era praticamente divisa in due dal confine tracciato dalla linea gotica.
I fascisti molto lentamente si stavano riorganizzando nello stato fantoccio di Salò.
Verso la primavera del 1944 la Guardia Nazionale Repubblicana cominciò a richiamare, con le buone maniere, chi era scappato dall’esercito.
Un disertore se catturato poteva subire una pena da dieci anni fino alla morte per fucilazione al petto, ragione per cui molti si decisero a entrare nella resistenza.
Qualcuno accettò il richiamo di Salò, molti si ritirarono sui monti con i partigiani.
Giacomo, non era mai stato fascista ma non si sentiva abbastanza partigiano da impugnare le armi e sparare, quindi rimase nella sua personalissima semi-clandestinità, evitando di mettersi troppo in vista,e accettando quella normale copertura che la gente offriva ai tanti che avevano disertato.
Vastissima era stata la solidarietà dei contadini emiliani nel difendere chi era scappato dall’esercito e dai tedeschi.
Intanto i contadini e le mondine, avevano iniziato a protestare, lottare, manifestare, rifiutando di consegnare il grano ai tedeschi: era la prima forma di resistenza non ancora armata.
Poi, arrivò la mattina del 7 agosto del 1944, questa si velocemente e senza avvisaglie per Giacomo.
Alcuni fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana, giunsero in paese e si presentarono a casa Conti, per prelevare il disertore Giacomo.
Solo che avevano sbagliato porta, e si erano rivolti ai Conti che abitavano di fronte: un raro caso di omonimia, senza parentela di sorta tra le due famiglie.
Ovviamente la famiglia Conti aveva risposto alla loro richiesta perentoria che lì non abitava nessun Giacomo, ma altrettanto ovviamente i fascisti credettero che qualcuno si stesse prendendo gioco di loro.
Decisero di perlustrare la casa, da cima a fondo, senza troppe cortesie.
Lidia, dalla cucina, avendo immediatamente capito chi volevano prendere, fece uscire dal retro uno dei bambini più grandi, perché andasse a informare che stavano cercando Giacomo.
Lidia Conti, più tardi avrebbe sposato Eliseo Conti, uno dei quattro fratelli di Giacomo, perpetuando così l’equivoco della strana uguaglianza di cognome: Lidia Conti in Conti.
I fascisti continuarono la loro perquisizione finché non si resero conto dell’errore.
Compreso l’equivoco, furono chiaramente indispettiti.
Nel frattempo Giacomo aveva avuto tutto il tempo di infilarsi velocemente una maglia e le scarpe, e di fuggire attraverso i campi.
I fascisti si decisero finalmente a attraversare la strada per dirigersi all’abitazione giusta, ma di Conti trovarono solo Giuseppe, il padre, e come facevano in queste situazioni con i genitori dei disertori, lo arrestarono.
Giuseppe era un buon uomo e non oppose resistenza.
Fu trasferito a Bologna nelle carceri cittadine di San Giovanni in Monte, e lì si ritrovò in cella con un suo concittadino, che come lui non era mai uscito dal paese di Sasso Morelli, se non per partecipare come soldato semplice alla prima grande guerra.
L’ex convento di San Giovanni in Monte era il carcere di Bologna posto su un piccolo rilievo, accanto alla chiesa omonima, poco lontano dal centro storico.
Il carcere in quel momento ospitava parecchi detenuti comuni e molti prigionieri politici.
Fu in quei giorni che la settima brigata partigiana sotto il comando di Gianni Garibaldi, aveva deciso di liberare tutti i detenuti.
Dopo aver raccolto ogni informazione utile, si erano accordati con un agente di custodia che aveva fornito ulteriori dettagli, affinché l’assalto avesse successo.
Era già stato fatto un primo tentativo a luglio, ma era fallito.
La sera del 9 agosto verso le 22, due auto si presentarono al carcere.
Dodici partigiani, alcuni vestiti da tedeschi altri da brigate nere fasciste, si presentarono con la pretesa di consegnare alla prigione alcuni partigiani catturati.
I due agenti di servizio stranamente avevano preso per buona la versione, e ingenuamente avevano aperto la porta del carcere.
Non c’erano state particolari difficoltà a immobilizzare i pochi agenti all’interno e a tagliare i fili del telefono.
Furono aperte tutte le celle liberando non solo i detenuti politici ma anche i prigionieri comuni.
Questa liberazione generale avrebbe creato un’utile confusione.
Naturalmente tra i 300 detenuti circa, vi erano anche Giuseppe e il suo amico.
Così si ritrovarono improvvisamente liberi a passeggiare per la città di Bologna, immersa nella notte.
Avrebbero poi girovagato fino all’alba, senza una meta precisa, attraversando una città che non conoscevano, come due turisti molto improbabili, tra le distruzioni dei primi attacchi aerei.
Molte abitazioni di Bologna erano diroccate, alcuni edifici e monumenti sventrati, ma era solo l’inizio: il peggio dei bombardamenti doveva ancora arrivare.
Verso l’alba i due avevano completato il loro giro senza senso tra le strade del centro, e si erano resi conto che non sapevano dove andare.
Non ci pensarono a lungo.
Decisero di riconsegnarsi alle carceri di San Giovanni in Monte.
Non è dato sapere l’espressione degli agenti di custodia quando videro Giuseppe e l’amico consegnarsi spontaneamente alla porta del carcere.
La Liberazione era ancora lontana.