Dicono: si sopravvive con una sola opera. Ma è sempre vero? E soprattutto, è sempre quella?
Prendiamo Sidney Poitier. Sicuri che “Indovina chi viene a cena” sia la sua prova migliore?
Poitier somigliava a certi vini da meditazione, il talento lo centellinava. A volte erompeva, a volte galleggiava, talora ancora avvolgeva. Con un retrogusto multiforme e una cifra unica: il silenzio.
Troppo solare e obamiano nei panni dell’impeccabile dott. Prentice. In quello stesso 1967 Sidney girò “La calda notte dell’ispettore Tibbs” (titolo originale “In the heat of the night”, nella doppia accezione di tenebra e intimità), che non gli valse l’Oscar – l’ottenne il suo partner, un Rod Steiger al meglio – ma ne svelò l’umanità, tanto più complessa quanto sottotraccia. Memorabile la scena in cui i protagonisti, il detective Tibbs-Poitier e il collega e rivale Gillespie-Steiger, si confidano le rispettive solitudini, nella stanza semibuia, mentre la chitarra di Quincy Jones volteggia nell’aria come una mosca ubriaca.
A Tibbs sfugge quell’appellativo, amico, che provoca un terremoto emotivo nel volgare e razzista Gillespie. Amico è comunanza di vita, pur tra imperfezioni e miserie. L’amicizia demolisce ogni barriera, logica, convenzione/convinzione. E discriminazione, certo. Poitier la rendeva con un semplice sguardo, l’asciuttezza apollinea e mai algida, il riserbo venato di civetteria e al tempo stesso così naturale. Sapeva esser sanguigno senza mostrarlo. Lo amavi e basta, come il vento, gli uccelli, il mare, perché era giusto, perché c’erano sempre stati e non occorreva proclamarlo. Sidney Poitier, o la grazia del vivere.