L’abisso: perché alcune madri uccidono crudelmente i figli?
Il terribile omicidio della piccola Elena Del Pozzo di neanche 5 anni ci pone innanzi al delitto più atroce, quasi impronunciabile, di cui è così difficile parlare, quello di un genitore che uccide il proprio figlio. Eppure trovo sia sempre più urgente farlo se si vuole prevenire e limitare il fenomeno dei figlicidi, purtroppo in crescita.
Il terribile omicidio della piccola Elena Del Pozzo di neanche 5 anni ci pone innanzi al delitto più atroce, quasi impronunciabile, di cui è così difficile parlare, quello di un genitore che uccide il proprio figlio. Eppure trovo sia sempre più urgente farlo incoraggiandone una analisi approfondita, multifattoriale e per certi aspetti scomoda se si vuole prevenire e limitare la crescita del fenomeno dei figlicidi cui stiamo assistendo impotenti e che negli ultimi vent’anni ha fatto registrare l’impressionate numero di quasi 500 bambini morti per mano dei genitori, coloro che più di tutti avrebbero dovuto amarli e proteggerli.
Recenti dati dell’Eures che hanno esaminato il fenomeno dal 2010 ad oggi hanno rilevato che, nella maggioranza dei casi, è il padre ad uccidere i figli (64,2%), tranne che nella fascia d’età 0-5 anni in cui sono maggiormente le madri a farlo (57,5%), come quasi esclusivamente a loro carico sono gli infanticidi ed i neonaticidi.
Circa il movente, nel 34,3 % dei casi di figlicidi è ascrivibile a un disturbo psicologico, percentuale che sale al 54,2% nelle madri, soprattutto quelle che uccidono i figli neonati a causa della depressione post parto.
Il possesso figura come secondo movente e riguarda prevalentemente gli uomini (21,5% dei casi contro il 2,1% tra le donne) ed in questo caso il figlio non viene considerato come un individuo a sé ma come un prolungamento del compagno/a che si vuole punire con l’atroce gesto.
Da qui vorrei partire nel mio approfondimento, perchè quest’ultimo sembra essere proprio il caso della piccola Elena Del Pozzo che la madre, rea confessa, ha ucciso a coltellate, con crudeltà inaudita e seppellita, sembra ancora viva, dopo averla avvolta seminuda in sacchi di plastica per simulare una aggressione sessuale alla piccola, raccontando poi di essersela vista strappare dalle braccia da un misterioso commando armato che avrebbe agito per vendetta contro l’ex compagno minacciato in passato.
Quella tra questi due ragazzi poco più che ventenni che condividevano ormai solo la figlioletta era una relazione tossica costellata di liti, tradimenti di lei a detta dei familiari di lui, persino da una denuncia per maltrattamenti a lui da parte di lei. La separazione ed il coinvolgimento di entrambi in nuove storie non aveva calmato gli animi né sopito il rancore che scorreva carsico tra i due e che è esploso, secondo anche gli inquirenti, perché la piccola Elena aveva trascorso una serata serena col papà mostrando di apprezzare la vicinanza della nuova fidanzata di lui, la cui immagine, apparsa sui social accanto all’ex, aveva già reso furiosa Martina, la madre di Elena. In molti in questi giorni hanno scomodato una sindrome di Medea che però non esiste come disturbo riconosciuto dalla comunità scientifica; piuttosto sarebbe il caso di parlare di complesso di Medea, per cui appunto questa giovane donna, come il personaggio mitologico, avrebbe ucciso la figlioletta offuscata da una possessività malata verso l’ex compagno. Il padre di Elena, intravedendo in molte interpretazioni l’ombrello della follia che assolverebbe in qualche modo questa madre sterminatrice, invoca la lucida premeditazione e la feroce cattiveria come spiegazione di una atrocità commessa che per molti trova spiegazione solo nella malattia mentale.
Questo delitto è stato a mio giudizio giustamente accostato da alcuni tecnici a quelli dei piccoli Samuele Lorenzi e Loris Stival, entrambi uccisi in modo cruento dalla propria madre. Nel secondo caso, inoltre, è simile la dinamica dell’occultamento del povero corpicino, mentre accostabile in entrambe le vicende, lo stabilisce la verità processuale, è il cumulo di menzogne dell’autrice del fatto per depistare le indagini.
Alle madri tristemente protagoniste di queste vicende, Annamaria Franzoni e Veronica Panarello è stato attribuito nella perizia psichiatrica un disturbo borderline di personalità, alla prima anche uno stato crepuscolare al momento dell’atto criminoso che l’avrebbe resa seminferma di mente durante la dinamica omicidiaria.
Questo avrebbe determinato una differenza nelle pene stabilite dal Giudice, perché a Veronica Panarello sono stati comminati 30 anni di carcere mentre ad Annamaria Franzoni solo 16.
Nel caso della madre della piccola Elena si potrebbe ipotizzare un profilo simile a quello di Veronica Panarello e ciò, anche se implicherebbe l’attribuzione di un disturbo mentale quale è quello borderline di personalità, non comporterebbe la diminuzione della pena inflitta in quanto il disturbo non avrebbe interferito con la capacità di intendere e di volere, così come suggerirebbe la dinamica omicidiaria e post omicidiaria dettagliatamente premeditata. Se ciò fosse confermato dalle indagini, il papà di Elena vedrebbe riconosciuto il suo desiderio di giustizia ed al contempo si spiegherebbe il perché di tanta ferocia premeditata da parte della madre.
Perché ho voluto condurre la mia analisi su questo punto? Perché occupandomi molto di prevenzione e gestione delle relazioni tossiche ed essendo, oltre che una Psicoterapeuta, una Psicologa dello sviluppo e dell’educazione che segue bambini, ragazzi e famiglie da più di vent’anni, rilevo un aumento della tossicità dei rapporti in tutti gli ambienti di vita, a partire dalle relazioni duali ad arrivare al gruppo dei pari passando naturalmente per il nucleo familiare. Lo status quo origina e a sua volta è causa di perturbazioni del legame di attaccamento genitori-figli e dell’emergere conseguente di personalità cosiddette drammatiche che si coinvolgono tipicamente in relazioni fortemente disturbate in cui vige l’abuso di uno sull’altro o in cui si determina una peste emotiva dagli esiti imprevedibili.
La società narcisistica in cui viviamo da almeno 4 decenni, da una parte tende a selezionare tratti narcisistici nei bambini che devono essere addestrati a competere per accaparrarsi risorse sempre più insufficienti e dall’altra ha fatto sì che in tanti casi crescessero adulti immaturi, autoreferenziali ed edonisti che sono diventati genitori per cui il figlio è un giocattolo o uno status symbol che deve assicurare loro un ritorno di immagine e nei confronti del quale non maturano alcuna responsabilità a costituirsi in quanto base sicura, come sarebbe giusto.
Ciò produce dei problemi nel legame di attaccamento genitori-figli e fa sì che si formino in misura crescente personalità drammatiche e personalità dipendenti, le une l’altra faccia delle altre, che tendono a combaciare perfettamente nelle due parti della mela avvelenata che è la relazione tossica.
La personalità borderline in particolare è quella che patisce l’attaccamento più sfavorito di quelli che sono stati studiati, il disorganizzato, per cui il bambino (più spesso la bambina) si sente contemporaneamente protetto dal genitore ma anche rifiutato e minacciato. Questo genera delle rappresentazioni interne di sè e del genitore multiple ed inconciliabili che ruotano tra le figure della vittima impotente, del persecutore e del salvatore. Tali modelli interni si riattiveranno nelle relazioni successive e, complici l’instabilità profonda dell’immagine di sè e dell’altro che patisce la personalità borderline insieme al discontrollo che la caratterizza, creeranno problematiche gravi, spesso irrisolvibili anche quando la relazione verrà interrotta e particolarmente quando ciò non sarà possibile per la presenza dei figli.
Un disturbo di personalità non descrive una condizione transitoria ma un modo di essere, di vedere ed interpretare la realtà attraverso lenti deformate ed è per giunta egosintonico, ovvero la persona che lo ha spesso non lo avverte come un problema.
In diversi casi le personalità drammatiche (Narcisistiche, Borderline, Antisociali ed Istrioniche) si configurano in quanto predatori affettivi e relazionali come emerge sovente dalle perizie giudiziarie, ma in tanti altri casi non è così evidenza che va sottolineata in modo che non si crei stigma sui disturbi mentali.
Torniamo alla personalità borderline che è stata più volte rilevata in casi di figlicidio: va detto che, proprio per il legame di attaccamento disorganizzato che ha sofferto nell’infanzia questa tenda ad idealizzare l’oggetto d’amore ed anche disgraziatamente ad attaccarlo distruttivamente qualora questo la deluda o, peggio che mai, l’abbandoni. Pertanto, nel caso della piccola Elena, un comportamento di una tale ferocia da parte della madre avrebbe il senso di sopprimere quella estensione del padre che agli occhi di lei la bimba rappresentava e che aveva preso ad odiare ma anche di punire, sfregiandolo e gettandolo via, l’oggetto d’amore che aveva osato metterla in discussione attraverso il legame con la nuova compagna dell’ex, attuando nei suoi confronti quella che avrà percepito come una invalidazione intollerabile.
Naturalmente dovremo aspettare la perizia psichiatrica per sapere l’esatto profilo di questa donna che ha ucciso con tanta premeditata spietatezza, ma sicuramente un disturbo di personalità potrebbe spiegare tale furia cieca che nulla ha del raptus o di altre condizioni di infermità mentale che pregiudicano la capacità di intendere e di volere.
Ritengo che, poiché la tossicità nelle relazioni sia sempre più grave e diffusa, i legami nelle famiglie precari, sfilacciati se non inesistenti, le personalità drammatiche sempre più numerose e le violenze su donne e bambini in crescente aumento, occorrerebbe intervenire con una adeguata educazione emotiva fin dalla scuola primaria, con un aiuto alle famiglie attraverso corsi di sostegno alla genitorialità che responsabilizzino circa l’importanza del rispetto nella coppia e dello stabilire un legame di attaccamento sicuro tra il bambino e chi si prende cura di lui, nonché di verificare l’adeguatezza dello stile educativo onde evitare che, come frequentemente accade, si consolidino schemi comportamentali e relazionali disfunzionali.
E soprattutto si tenga in adeguato conto il problema dei cicli di deprivazione, per cui certe sofferenze patite nella prima infanzia sono trasmesse alla generazione successiva in modo da intervenire per evitare che una bambina non vista, abusata, confusa e minacciata o un bambino manipolato, controllato ed umiliato, si trasformino in compagni violenti e/o in un padre sterminatore o una madre assassina.
3 commenti
Carissima Dott.ssa Alexia Di Filippo, seguo costantemente tutti i suoi argomenti ma questo mi lascia sgomenta. Non riesco a perdonare tale atto, non riesco a concepirlo per quanto sembri un incubo dal quale risvegliarsi. Spero ardentemente che questa donna (non posso chiamarla madre) possa avere la giusta pena, qui c’è una fredda premeditazione addirittura il commando armato… e poi seppellire quasi vivo un corpicino innocente.
Le sue statistiche sono preoccupanti sulle cause di tali delitti.
L’umanità ha ormai ben poco di umano.
La saluto con grande gratitudine e ammirazione.
Gentilissima Gabriella, grazie di cuore per le parole di riconoscimento che mi rivolge e l’interesse col quale mi segue.
E’ importante leggere il disagio che si nasconde dietro certi atti, non allo scopo di giustificarne l’autore/autrice, men che meno di perdonarlo/a, specie in casi di figlicidi premeditati con fredda lucidità come quello della piccola Elena, quanto per comprendere l’origine e cercare di prevenirli.
I maltrattamenti familiari, i figlicidi, i femminicidi e le relazioni tossiche che ne costituiscono spesso la culla, vanno intesi in senso sistemico riferendosi ai valori della collettività che li esprime ed in questo senso non si può non concordare circa la perdita di umanità che la nostra società manifesta, fattore che favorisce, se non determina, fatti gravi e gravissimi a cui ci troviamo sempre più spesso ad assistere.
Un caro saluto.
grazie infinite per la sua risposta, grazie! Buon lavoro dottoressa.