E nella notte autunnale e piovosa – notte britannica – mi è apparsa lei. In sogno. Senza un motto, con la sola presenza. E le emozioni sono sgorgate una dopo l’altra, come un fiume.
Che fosse una sovrana importante l’ho sempre saputo. Che fosse una sovrana vera, anche. Probabilmente la storia, nella quale era entrata già da viva, ricorderà il suo lunghissimo regno come una “seconda età elisabettiana”. Giusto riconoscimento per chi – lo annota acutamente Gaby Hinsliff sul “Guardian” – ha saputo esercitare il proprio potere “in modo così abile da renderlo invisibile”.
Elisabetta fu Elisabetta perché non si limitò a Elisabetta. Nel primo discorso del 21 aprile 1947, l’allora ventunenne principessa seppe ricapitolare mirabilmente il senso dei secoli, l’essenza stessa della monarchia anglosassone: “Dichiaro davanti a tutti voi che tutta la mia vita, lunga o breve che sia, sarà dedicata al vostro servizio e al servizio della nostra grande famiglia imperiale a cui tutti apparteniamo”. Servì il regno, certamente. Ma servire il regno, per un/a inglese, equivale a proteggere l’indipendenza, la libertà, il diritto/dovere di dubitare, la fierezza isolana un po’ sdegnosa e selvaggia, tempestosa come certe cime, che nemmeno l’Impero romano riuscì a domare. Non vi riuscirono neppure i sovrani Inglesi quando smisero di fare gli Inglesi. Giovanni Plantageneto, uno dei primi, lo sperimentò perdendo il bene più prezioso, la terra d’Inghilterra (ma la Magna Charta lo riscattò, obtorto collo, del penoso appellativo). Carlo I vi lasciò addirittura la testa; suo figlio Giacomo dovette darsela a gambe o sarebbe finita nello stesso modo. Quanto a Mary Stuart, Maria Stuarda, trovò sul suo cammino d’illusa intrigante una cugina imbattibile: un’altra Elisabetta, la prima. Eliminata anche lei, cruentemente (e prevedibilmente).
Gli Inglesi non vogliono padroni. Vogliono governi. Le persone sono relative (Elisabetta II ha terminato il suo ultimo discorso pubblico con la frase, non di circostanza, “Nessuno vive per sempre“). Le idee rimangono. Si può anche uccidere, il monarca; la monarchia no. Per questo Elisabetta, come i suoi predecessori uomini e donne, non è mai stata una “regina del popolo” e desta impressione che la durata del suo regno sia seconda solo a un sovrano a lei opposto, Luigi XIV, il Re Sole, lo Stato incarnato nonché nazione “avversaria” per antonomasia.
Elisabetta è stata però una monarca popolare, per fedeltà, principi, senso del dovere, apertura al nuovo tanto impercettibile quanto continua e, diremmo, inesorabile. E i sudditi l’hanno amata. Catapultata nella guerra, la visse e condivise, coerentemente e convintamente. Si arruolò nell’esercito. Per la patria, e per la democrazia, lottò. Fu regina con Margaret Thatcher e i minatori e le Falkland e l’Irlanda cattolica e le basi aeree prestate a Reagan durante la prima guerra del Golfo; poi con Major e Blair e Johnson e sopravvisse pure al covid-19, benché malissimo gestito nella prima fase dal capelluto ministro conservatore. E conobbe pure tutti i suoi regni, l’Africa, i paesi comunisti. Sostenne Mandela. Avviò la trasformazione dal vecchio Impero al Commonwealth. E appoggiò l’emancipazione della donna, sempre in punta d’ala, come cosa naturale, perché naturale lo era nel paese delle sovrane e delle suffragette. In realtà si trattò d’un processo lungo e faticoso che Elisabetta seppe portare a termine con una vena quasi poetica.
Qualcuno sostiene che, con la sua scomparsa, si è concluso il Novecento. Ma Elisabetta non era donna di chiusure, quanto di continuità e saldezza. È semmai quest’ultima a mancare, quel senso della storia che soprattutto nei paesi di lingua anglosassone rischia di appiattirsi su un nichilismo asfittico, preconizzato da Orwell con largo anticipo: “Il concetto stesso di verità oggettiva sta scomparendo dal nostro mondo. Le bugie passeranno alla storia”, anzi, la nozione stessa di storia verrà meno fino a risultare incomprensibile.
È stato proprio il Novecento ad aver messo in crisi la storia. Saprà Carlo, l’anziano successore al trono, preservarla e rinnovarla con la stessa acribia della madre? Possiamo solo augurarglielo. Per gli inglesi, innanzi tutto; e per il futuro della democrazia, in Europa e nel mondo intero