Lo scrive nel 2008 a 68 anni. Lo scrive accumulando ricordi, oggetti, feticci della memoria, addensando sulla pagina un’autobiografia impersonale e tattile che diventa il diario di una generazione, quella cresciuta nel dopoguerra, quella delle donne che hanno fatto in tempo a conoscere com’era il mondo prima del 1968. Perché da quel momento “formidabile” (per dirlo con Mario Capanna) niente sarebbe più stato come prima.
di Erica Arosio
Ecco perché il libro secondo me più bello, l’unico davvero imperdibile della scrittrice premio Nobel 2022 può essere amato -a capito – fino in fondo solo da quelle ragazze che come lei hanno vissuto gli anni prima della rivoluzione (per dirla con Bertolucci).
Annie Ernaux in Gli anni parla della sua vita e di tutte noi, racconta di sé ma si avventura anche in una puntigliosa ricerca storica sociologica compilando il catalogo degli oggetti e delle situazioni dimenticate perché inghiottite dalla modernità dello spreco.
E noi invece che la guerra se non l’abbiamo vissuta l’abbiamo ascoltata dai racconti dei nostri genitori, noi che abbiamo conosciuto gli anni della scarsità, leggiamo e capiamo il suo romanzo e pagina dopo pagina ci riconosciamo e ci emozioniamo.
Anche se non siamo figlie di una ristoratrice della Bretagna, anche se non abbiamo faticato come lei a farci accettare nel mondo intellettuale, proviamo una profonda empatia con tutto quello che racconta in pagine fiammeggianti.
Se anche non sono ricordi nostri, gli eventi che racconta appartengono alla biografia di qualcuno che abbiamo conosciuto e quindi ogni frase diventa familiare. Capiamo cosa sta scrivendo quando racconta lo sforzo profuso nel trovare uno stile, piuttosto che lo spauracchio del sesso e la guerra contro le vestali della castità che giorno dopo giorno, conquista dopo conquista noi ragazze abbiamo iniziato a disconoscere se non a detestare.
Ci riporta alla memoria l’avvento della plastica, degli elettrodomestici, l’arrivo dei cibi in scatola, della maionese nei tubetti e dei surgelati che per qualche tempo le nostre mamme hanno pensato fossero più sani dell’insalata dell’orto. Perché avevano le vitamine, perché erano confezionati e quindi igienici e soprattutto perché venivano dall’America che era il futuro sognato e immaginato.
Forse le nostre mamme non ci cucivano paletot con vecchi cappotti di papà rivoltati, eppure ce li ricordiamo perché li abbiamo visti nei film e letti in altri libri che oggi pare non si usino più. Ci ricordiamo una femminilità umiliata e imprigionata, dove qualunque atto era troppo. Un vestito troppo trasparente, le gambe accavallate non da brava ragazza, lo scandalo del fumare in strada, i capelli sciolti invece che legati o trattenuti dal cerchietto (e neppure sapevano dove fosse l’Iran che allora si chiamava Persia: conoscevamo solo lo Scia e Soraya, la principessa infelice) .
Questo racconta Annie Ernaux nel suo libro più bello, fa rivivere la nostra generazione, quella di ragazze vissute in un Novecento che assomigliava all’Ottocento, ragazze traghettate poi fino a un futuribile 2000 dove, a dispetto di tante previsioni, nessuno programma week end sulla Luna.
Io mi sono ritrovata in ogni riga di Gli anni e come l’autrice so bene che la mia vita vera è iniziata quando avevo 14 anni. Nel 1968. Per me, come per lei, quello è stato il primo anno del mondo. Pensavamo che il futuro sarebbe stato fatto solo di progressi e conquiste e di progredire e di uno spazio sempre maggiore per le donne. Eravamo sicure che le donne ce l’avrebbero fatta e che mai saremmo tornate indietro ma avremmo corso sempre in avanti, per avere tutto. Non è andata esattamente così, ma come per Annie, nessuna di noi si stancherà mai di credere e lottare.