Lo sterminio delle donne non ha fine, non conosce nazionalità né colore della pelle e ciò avviene da molti secoli. La nostra epoca sembra confermare questo terribile primato nonostante le campagne, le riflessioni, le prese di posizione e le leggi restrittive, ogni giorno una donna cade sotto i colpi di un uomo che non tollera di essere messo da parte. E dire una è sicuramente riduttivo, ma solo puramente simbolico. L’abolizione del delitto d’onore doveva metterci al riparo, ma evidentemente la legge da sola non è sufficiente. Si dice da più parti che deve cambiare la cultura, belle parole ma concretamente cosa significa davvero? Per cambiare la cultura ci vogliono secoli e soprattutto è indispensabile iniziare dalla più tenera età. Per cambiare la cultura è fondamentale non dimenticare il passato, ricordando ad esempio una scienziata e filosofa come Ipazia.
Ipazia di Alessandria, vissuta tra la seconda metà del IV e i primi decenni del V secolo, subì sulla propria pelle il potere del maschilismo nella sua manifestazione più violenta. Matematica, astronoma e anche filosofa, sapeva vivere in mezzo agli uomini, sapeva farsi valere come insegnante in una società in cui la cultura era ancora ad esclusivo appannaggio maschile Il merito di questa donna straordinaria fu quello di saper diffondere il conoscere, al contrario di chi da sempre voleva detenere il potere dell’istruzione nelle mani di pochi e soprattutto in quelle maschili. Ipazia era per la trasmissione della cultura, pare che divulgasse le sue competenze anche in mezzo alla piazza, disposta a raccontare a chiunque volesse sapere. Un atteggiamento controcorrente, come fu quello di Socrate, la portò alla morte: Ipazia fu uccisa per mano di alcuni cristiani fondamentalisti e per questa ragione è considerata la prima martire pagana. Con la sua scomparsa finì di esistere un’importante comunità scientifica, quella di Alessandria d’Egitto, e si interruppe per molti secoli il tentativo femminile di conquistarsi un posto apicale nel luogo strategico della cultura. È con grande commozione mista a disappunto che dobbiamo ricordare questa icona della libertà di pensiero per avviare un serio e costruttivo cammino culturale verso la parità di genere. La commozione va poi superata con l’impegno quotidiano, insistendo nel proporre riflessioni, dialoghi, dibattiti.
L’importante è saltare di pari passo le auto-celebrazioni.
Quando si affrontano questioni così importanti e delicate per l’equilibrio della convivenza presente e futura, bisognerebbe imparare a mettere da parte il proprio ego, il proprio desiderio di mostrarsi: parlare di parità contro la violenza, di amore per sconfiggere certi atteggiamenti brutali, non è uno spettacolo teatrale ma una realtà bruciante sulla pelle delle donne. Ispirarsi ad Ipazia non significa immolarsi (le morti femminili riempiono da sempre la storia, pensiamo ai nove milioni di “streghe” sui roghi medioevali) ma vuol dire lavorare per la causa senza essere di parte. Raggiungere la parità infatti prevede di dimenticare la propria appartenenza politica, religiosa, di genere e l’orientamento sessuale perché, al di là delle specifiche differenze, siamo tutti esseri umani, donne e uomini, con il desiderio di migliorare il Mondo in cui viviamo. Se cadiamo nella logica del “Io sono meglio di te” non andremo da nessuna parte.
Come scrive la grande astrofisica Margherita Hack nella prefazione del romanzo Ipazia – Vita e sogni di una scienziata del IV secolo: «Dopo la sua morte molti dei suoi studenti lasciarono Alessandria e cominciò il declino di quella città divenuta un famoso centro della cultura antica, di cui era simbolo la grandiosa biblioteca. Il ritratto che ci è stato tramandato è di persona di rara modestia e bellezza, grande eloquenza, capo riconosciuto della scuola neoplatonica alessandrina. Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica.»
Ora ci possiamo chiedere al di là di tutto, al di là della politica e della regione, quale fu la ragione profonda di quel femminicidio? Si dice che il maschio che uccide non sopporta l’emancipazione femminile, ma soprattutto come ho scritto in Ho messo le ali (II edizione, Rupe Mutevole 2018), il femminicidio è un “delitto del potere perduto”. La cronaca ci informa ancora troppo spesso, quando parla del femminicidio, che si tratta di un delitto passionale: una definizione che ci appare poco convincente, soprattutto sembra non rendere giustizia alla vittima. Che cos’è la passione? Cosa significa il termine passione se lo leghiamo all’amore? E in che relazione sta con la gelosia? Il termine passione deriva dal latino passus, participio passato di pati che vuol dire patire, soffrire. Pertanto ”passione” contrapponendosi ad “azione” è un verbo che rimanda a qualcosa che si subisce, quindi il delitto passionale nasce dalla sofferenza e dal desiderio di allontanarla da sé togliendo la vita a chi la provoca. L’amore passionale libera il sublime e là dove c’è l’assoluto vive anche l’incontro con il dolore che è terrore di perdere la felicità, ma nonostante ciò chi ama veramente non può mai giungere ad uccidere perché, quell’amore totale e assoluto che muove solo passioni vitali, non ha nulla a che fare con il togliere la vita a una donna: chi uccide lo fa perché vede vacillare il proprio potere. Il delitto del potere perduto ha colpito la prima martire pagana, Ipazia, e continua ad uccidere nel 2022: prendiamone atto con lucidità e piena consapevolezza per contribuire, ognuno di noi, alla nascita di una cultura del vero rispetto della donna.