Nurgül Çokgezici, curda, mediatrice culturale, cresciuta a Milano e da sempre impegnata dalla parte di chi ha bisogno.
Nurgül Çokgezici Curda di 38 anni arrivata in Italia con la prima diaspora curda dalla Turchia, sposata due volte e con tre figli. A 10 anni è arrivata in Italia con la madre e il fratello tramite un ricongiungimento familiare. La madre casalinga analfabeta non ha potuto studiare. Il padre calzolaio in patria ora gestisce un piccolo ristorante curdo.
L’emigrazione curda dalla Turchia è iniziata circa 20 anni fa, e ha interessato quasi esclusivamente Germania, Austria e Gran Bretagna. Secondo alcune stime, i curdi che attualmente vivono in Kurdistan sono circa 38 milioni (20 milioni in Turchia, sei milioni in Iraq, dieci milioni in Iran e due milioni in Siria).
Sono circa un milione e mezzo i curdi che vivono nella diaspora, un numero che negli ultimi anni è però salito enormemente: i profughi, in questo momento, sono almeno cinque milioni.
In Italia si trovano circa tra i tre e i quattrocento curdi, sparsi nel centro e nel nord Italia, per lo più con regolare permesso di lavoro.
Tu sei una curda turca? Che differenza c’è tra curdo e turco?
Prima di tutto si parla una lingua diversa e le usanze anche se sono simili sono diverse. I curdi discendono dagli antichi Medi e parliamo una lingua di origine indoeuropea.
Sei sposata?
No, ma sono stata sposata due volte ed ho avuto 3 figli due dal primo matrimonio e 1 dal secondo.
Che lavoro fai in Italia?
La mediatrice culturale. Ho due lauree ed ho fatto sia l’interprete che la mediatrice. Sono specializzata in sociologia e diritto dell’immigrazione. Ho lavorato in vari ambiti e sono anche operatrice socio-pedagogica. Lavoro nelle scuole con i ragazzi italiani.
Mi voglio specializzare in psicologia transculturale. Vorrei occuparmi soprattutto dei problemi psicologici degli immigrati di cui nessuno si occupa.
Ci sono molte donne tra gli immigrati di cui ti occupi?
Dipende da quale paese arrivano. Di solito mi occupo delle donne mussulmane che vengono dal vicino oriente, ma capita di occuparmi anche di sudamericane e filippine, le donne che vengono e dai paesi arabi di solito arrivano attraverso un ricongiungimento famigliare richiesto dai coniugi.
Perchè no, io sono arrivata in Italia con una madre analfabeta ed io invece adesso ho due lauree. Bisogna provarci. Anche in Italia cominciano ad esserci candidati di origine non italiana…
Ma l’Italia è un paese fresco d’immigrazione. Questa è cominciata in numero considerevole solo negli anni 80…
Sì, ma bisogna dare agli immigrati la possibilità di candidarsi, promuovendo maggiormente l’integrazione.
Cosa fanno maggiormente le donne extracomuitarie?
Non solo le badanti o le infermiere, ci sono molte donne laureate come me. Tuttavia le donne arabe e anche turche e curde non lavorano e quindi si adattano alla nuova realtà un cui vivono con molta più difficoltà. L’integrazioone per loro è spesso difficile. Inoltre le nuove generazioni, figli d’immigrati curdi si sento soprattutto curdi, poi anche italiani.
Che auguri faresti alle donne extrcomunititarie?
D’integrarsi, non di adattarsi solamente come fanno alcune mantenendo in casa le proprie tradizioni. Limitarsi solo a sopravvivere nel nuovo contesto senza integrasi provoca spesso solo dolore.
Cosa stai facendo adesso?
Aspettando le mie figlie che tornano, una dal corso di pianoforte e l’ altra da violino dalla scuola di musica di Novate milanese. I curdi vivono nella musica sin da piccoli . Io mi sono sempre rigenerata con la musica.
Ti senti un’immigrata?
Sì. Sono italiana a tutti gli effetti ma non posso tornare a casa perchè sono ricercata perchè attivista per i diritti umani. Mi arresterebbero appena messo il piede in Turchia. Ci sono anche librerali e democratici in Turchia ma la maggioranza purtroppo non lo è.
La culltura è l’unico modo di vivere in un mondo che ci reclude.
Sono Nurgul Cokgezici, Sono Curda, e sono nata del Kurdistan turco. Non avevo una patria neanche nella mia patria. Sono un’immigrata di prima generazione. Perciò ho dovuto scoprire sulla mia pelle la difficoltà legate a una terra nuova e una lingua sconosciuta, ho vissuto tutta la complessità di adattamento al nuovo paese e a compiere un percorso scolastico regolare. Oggi ho 38 anni, sono madre di tre bellissime ragazze, e mi prendo cura di loro da sola. Ma il mio percorso è stato – ora lo comprendo – molto, molto difficile. Il sociologo franco algerino Abdel Malek Sayed dice che i migranti vivono una doppia assenza: non appartengono più alla terra da cui provengono, e non gli viene consentito di appartenere a quella dove giungono. Vivono per difetto la prima cittadinanza, e per eccesso la seconda. Ci sono ma è come se non ci fossero. Nessuno li vede, nessuno li ascolta. Portofranco è stato per me la prima “patria” dove sono potuta approdare. Ho scoperto da poco che quando si nasce in un contesto culturale e sociale, è molto difficile poterne uscire, specialmente se è saturo di povertà e degrado, e se non c’è nessuno che ti aiuti e che si possa prendere cura di te. Ho sempre desiderato studiare, e potere un giorno aiutare gli ultimi, quelli dimenticati come sono stata dimenticata io. La vita è stata generosa e ha esaudito questo desiderio, grazie soprattutto alle persone speciali che ho incontrato a Portofranco, dove ho sempre trovato chi mi aiutasse, mi accompagnasse, in ogni passaggio della mia vita scolastica e quella successiva. Prima mi sono diplomata in ragioneria e poi mi sono laureata in Mediazione linguistica e Psicologia del lavoro. Ora ho un impiego come mediatrice linguistica, posso aiutare i profughi, quelli che sono rimasti senza una terra, come lo ero io. Inoltre sono una educatrice in una scuola nel quartiere San Siro, dove posso seguire quelli che la società bolla troppo presto come ragazzi difficili. Non li capisce, li allontana e spesso se ne disfa. Così come era stato per me alla loro età. In Università sto contribuendo alla formazione di altri mediatori culturali, costruendo spero una speranza per chi verrà dopo di me. Portofranco è stato per me un luogo, dei muri e dei volti familiari, dove ho ritrovato la casa che avevo perso a nove anni. C’erano volontari e ed educatori che avevano una carezza per il mio cuore; so di dovere tanto a questo posto straordinario e alle meravigliose persone che mi hanno donato tanta bontà. Senza loro non so se avrei potuto farcela, ed è anche grazie a loro se ho compreso che esistesse un modo di stare al mondo che non fosse determinato dalla ricerca del potere. Il mio grande Maestro Rumi, figlio della mia terra, dice che tutto è destinato a finire, l’uomo e le cose. Ciò che non finirà è invece l’Umanità. Questa solo rimane, e ognuno di noi deve fare ciò che è nel suo potere per lasciarla a questo mondo. E’ una delle ragioni per cui siamo su questa terra. Portofranco per me ha rappresentato proprio questo: seminare e coltivare umanità senza nessuna distinzione di etnia, religione o pensiero politico. Sarò per sempre grata alle persone che ho conosciuto a Portofranco per avermi dato la possibilità di appartenere all’Italia. Tanto che dallo scorso anno anche le mie figlie – la seconda generazione – hanno cominciato a frequentarlo, ed è per me motivo di commozione.