Le recenti battaglie delle donne iraniane, mi hanno rammentato una donna dell’Iran de XIX secolo: Fatimah Baraghani , conosciuta come Tahirih.
di Maria Aprile
Tahirih, di cui non conserviamo ritratti, è stata descritta come una donna bellissima e una profonda intellettuale. Era esperta di teologia islamica, grande memorizzatrice e interprete dei passi più complessi del Corano, fine poeta erede della tradizione sufi.
È stata una femminista e una riformatrice religiosa nell’Iran del XIX secolo.
Maestra adorata, per uomini e donne, ma anche figura imbarazzante, scandalosa per il suo pensiero e le scelte di vita.
Come aveva potuto una donna sola sfidare le convenzioni del tempo, le sue leggi, la sua morale? Chi erano gli uomini e le donne che le hanno aperto la strada? Me lo domando con convinzione, perché nessuna di noi è figlia di sè stessa, ma sempre debitrice nei confronti di qualcuno, qualcuna.
Mi sono inoltrata in cerca di risposte su lei.
La data di nascita di Tahirih è incerta, probabilmente nel 1815 a Quazim, da una famiglia nobile e istruita di alti prelati.
La madre, Amene o Amina Khanom, aveva ricevuto un’istruzione, la zia era una calligrafa nei circoli reali. Il padre Muhammad Salih Baraghani era un noto teologo e nel 1817 aveva fondato una madrasa comprendente una sezione femminile, dove la giovane e le sue sorelle ebbero modo di studiare.
Fatimah era una studente brillante, e il padre le permise di presenziare alle sue lezioni e studiare, teologia, giurisprudenza, letteratura persiana e poesia, dandole così un’istruzione solitamente destinata ai maschi. Per non destare scandalo la ragazza era costretta a seguirle nascosta dietro una tenda.
A tredici/quattordici anni fu fatta sposare con il cugino paterno Mohammad Baraghani, ostile alla sua attività intellettuale. Un matrimonio infelice, da cui nasceranno due figli e una figlia.
Il suo lavoro interpretativo del Corano la portò ad avvicinarsi allo shaykhismo, e intrattenere una corrispondenza segreta con il leader Sayyid Kāẓim bin Qāsim. Lo shaykhismo, movimento eterodosso shiita, sosteneva, che Muhammad non fosse l’ultimo inviato da Dio e che le scritture islamiche prevedessero l’avvento di una nuova manifestazione profetica. La sua vicinanza a quel pensiero le procurò l’ostilità dei familiari.
All’età di circa 26 anni nel 1843, nel tentativo di incontrare Sayyid Kāẓim riuscì ad ottenere dai familiari il permesso di recarsi in pellegrinaggio a Karbala, insieme alla sorella. Giunta nella città santa scoprì che questi è recentemente scomparso.
Lei non si perse d’animo, conquistò la fiducia della vedova e delle donne della famiglia riuscendo così ad accedere ai manoscritti del maestro. Fatimah Baraghani, studiò approfonditamente il suo pensiero al punto da dare lezioni, da dietro una tenda ai di lui allievi, e separatamente anche ad un pubblico femminile, suscitando la disapprovazione soprattutto da parte dei prelati.
Costretta a lasciare il territorio dell’attuale Iraq intraprese un insidioso viaggio di ritorno. Giunta a casa rifiutò di tornare dal marito, che la ripudiò qualche settimana dopo.
Accusata di avere avuto parte nell’omicidio di uno zio, violento anti shaykhii, subì un periodo di arresti domiciliari da cui fuggì alla volta di Teheran trovando rifugio nella casa di quello che la sua nuova fede considera il Mahdi.
Nel 1844 aderì ufficialmente al movimento Bábí,(precursore della fede Bahà’i) portatore di una rivelazione divina indipendente dall’Islam. E nel corso della conferenza di Badasht (1848) lei, unica donna presente, sostenne la posizione di quanti decisero di staccarsi dall’islam, ripudiare la Sharia (il Corano rimane invece fra i testi sacri, insieme ad altri) e dichiararsi religione autonoma.
Nel corso di quest’evento, come gesto di rifiuto verso regole religiose arcaiche, si tolse il velo davanti ad un pubblico maschile, dando luogo ad accuse di immoralità.
Catturata e portata in presenza dello scià Nasser al Din, rifiutò la sua proposta di abiurare la fede babì per entrare in condizione elevata nel suo harem, in cambio della salvezza. Scrivendo le seguenti parole sul retro della missiva del sovrano:
Regno, ricchezza e dominio siano per te
Vagabondaggio, divenire povero derviscio e calamità siano per me
Se quella condizione è buona lascia che sia per te
Se questa condizione è cattiva, io l’agogno; lascia che sia per me.
Imprigionata in casa di un notabile per circa quattro anni, godette di sufficiente libertà permise da continuare l’insegnamento, raccogliendo intorno a sé signore della nobiltà persiana e denunciando apertamente la poligamia, il velo e altre restrizioni imposte alle donne.
Falliti tutti i tentativi di ricondurla all’ortodossia fu condannata a morte, con l’accusa regolarmente invocata oggi dalla Repubblica islamica di: “aver diffuso la corruzione sulla terra”.
Nell’estate del 1852, di notte e in segreto, Táhirih venne portata nel vicino giardino Ilkhani a Teheran, strangolata con il suo stesso velo e gettata in un pozzo. Di lei si narra che preparatasi all’esecuzione si fosse vestita di tutto punto e agghindata.
Alla sua morte gli scritti presenti in casa furono distrutti da alcuni suoi parenti.
Con la sua vita e le sue opere, Táhirih ha sostenuto il diritto delle donne di studiare, pensare e vivere e non considerarsi inferiori agli uomini, influenzando anche per il futuro, la consapevolezza di quante l’avevano incontrata.
Delle sue opere teologiche e religiose ne sono sopravvissute una dozzina, altrettante lettere personali ed una cinquantina di poemi caratterizzati da forte passione religiosa.
Poco conosciuta in Italia, oggi per le donne iraniane e le loro discendenti è ancora un esempio: Azar Nafisi la definisce un modello di autodeterminazione femminile. Bahiyyih Nakhjavani le ha dedicato un romanzo: La donna che leggeva troppo, pubblicato in Italia da Rizzoli ne 2009
Per chi volesse conoscerla meglio metto qui i link ad alcuni suoi testi:
Alcune sue poesie tradotte da Alessandro Bausani, sono reperibili in https://gaiaplanet.net/tahereh
Altre fonti:
https://en.wikipedia.org/wiki/T%C3%A1hirih – Martha Root – Tàhirih la pura. 1996