Se il DNA lo conferma, in un certo senso, Saman Abbas è risorta. Il corpo femminile, motivo di scandalo e disonore, torna in mezzo a noi integro, a suo modo raggiante. E nessuno riuscirà più a trattenerlo.
Di Daniela Tuscano
Non era una santa Saman, era una ragazza come tante, col comune e naturale istinto alla felicità, umana prima che donna. Chi l’ha uccisa ha creduto d’inchiodarla a un ruolo, crocifiggendo la sua ribellione. S’era fatta regina e il destino la voleva schiava. Ma Saman, al destino non credeva. Credeva nella libertà. Libertà d’amare, di vivere da protagonista e non per procura, di gioire con la propria pelle. Chi l’ha uccisa lo sapeva ed eliminando il suo corpo ostinatamente, pazzamente libero intendeva negare l’interezza d’ogni donna, di là da qualsiasi origine o credo o etnia. Nell’ottica patriarcale, la donna NON è e NON deve essere. Un’ottica, per aggiungere orrore a orrore, condivisa da Nazia, madre di Saman (nella foto assieme al marito Shabbar, ideatore del figlicidio, e ai parenti-complici Danish e Ikram), come molte vittime trasformate in carnefici le cui sindromi non hanno mai ricevuto le necessarie attenzioni. Gettare in una fossa comune quel corpo riottoso significava pertanto ricondurlo in un NON luogo, discarica dell’esistenza.
Ma quel corpo riaffiora, proprio il giorno in cui si ricordano le donne vittime di violenza. Riaffiora pur se appartenesse a un’altra ragazza, perché ognuna di noi, in un periodo della storia, è stata Saman. Perché troppe lo saranno per sempre. Ma, grazie (anche) a Saman, potranno non esserlo più.
Saman risorge da morta celebrando così la sua Pasqua islamica, occidentale/orientale, femminista autodidatta senza schemi né formule. Libera ci era nata, lo sentiva ancor prima d’averne contezza; libera ora riappare, col suo corpo che gli assassini hanno tentato invano di zittire. E ha vinto.