Per lungo tempo, nelle organizzazioni mafiose, il ruolo svolto dalle donne al loro interno, è stato sottovalutato, sia nelle indagini sia nelle notizie di stampa. Del resto, nei decenni anteriori alle cosiddette “ stragi”, era dominante lo stereotipo della donna( familiare di un boss o di un affiliato) muta, docile, ubbidiente, sottomessa, senza individualità propria e senza autonomia decisionale, tranne rare eccezioni.
Negli ultimi trent’anni è invece emerso chiaramente che molte di loro hanno avuto un ruolo rilevante, sia nel perpetuare i crimini commessi dagli uomini d’onore, sia nel convincerli a collaborare con la giustizia.
Ombre e luci che è impossibile riassumere in un articolo se non a modalità di “piccole schegge”.
Dalle testimonianze rese da Leonardo Messina, uomo d’onore pentitosi nel 1992, apprendemmo direttamente che : “La donna non è mai stata, né sarà mai affiliata ma ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Uomini come me sposano la donna adatta: la figlia di un uomo come me. Cosa Nostra le controlla fin da bambine, come noi. Molte riunioni si sono svolte in casa mia o in quella di mia madre e di mia sorella. Sentono tutto ma non possono dire nulla. Le donne sono portatrici di segreti”.
Ancora : il pentito Gaspare Mutolo così spiega il ruolo delle mogli dei mafiosi:”…Nella mafia non esiste una donna affiliata a Cosa nostra con il rito. Certo, nella mafia ci sono personaggi molto importanti…e sono le mogli dei mafiosi…a volte le donne vengono coinvolte…è per quella ubbidienza cieca che la donna ha verso il marito…e se il marito a un certo punto dovrebbe avere bisogno della moglie per trasportare un cadavere o un carico d’armi, la donna non direbbe io non lo faccio…per ubbidienza… perché la moglie si sente in dovere di aiutare, di seguire il marito”
Ci rimangono anche le parole di Giovanni Falcone: “Alcune donne, purtroppo non rare, non si sono ancora schierate con la cultura della vita. Penso alla moglie di Vincenzo Buffa, che aveva cominciato a collaborare con me. Ho commesso l’errore di permettergli di parlare con lei, come egli chiedeva insistentemente. E lei lo ha convinto a ritrattare, a rimangiarsi le sue dichiarazioni. Ha persino organizzato una specie di rivolta delle mogli nell’aula bunker del maxiprocesso a Palermo: piangevano, urlavano, protestavano a gran voce non contro quel Buffa che voleva infrangere l’omertà ma contro i giudici che lo avevano costretto a comportarsi in quel modo”.
E’ sicuramente vero che in una famiglia mafiosa, è stata ,e probabilmente lo è ancora, la donna a trasmettere “disvalori mafiosi” a figli e figlie e a custodire gelosamente questi codici culturali che danno forza all’omertà, alla vendetta, a perseguire l’onore mafioso ma è pur vero che tante di loro si sono ribellate, hanno cercato di fuggire da quel mondo criminale per salvare se stesse ed i propri figli.
Sono tante, nella storia delle mafie quelle che hanno pagato con la vita questo atto di ribellione: due nomi per tutte Lia Pipitone e Lea Garofalo, vittime nell’ordine di mafia e n’drangheta.
E resta sempre il dubbio che tante di quelle che hanno “sconfessato” il pentimento di mariti, padri, fratelli lo abbiano fatto per salvare i propri figli, per sottrarli a vendette, ritorsioni ed esecuzioni feroci.
A tal proposito non bisogna dimenticare l’appello, pubblicato nel maggio del 1993 sulle pagine del “Giornale di Sicilia”, che fece Filippa Spatola Inzerillo rivolgendosi alle donne di mafia: “Ribellatevi. Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta…lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce ,nel segno dell’amore di Dio”. Filippa viene definita la prima donna di mafia ad aver avuto il coraggio di palesare questo appello pubblico alle altre donne nella sua condizione.
Nel mondo nebuloso delle mafie emergono da più di trenta anni, profili di queste donne dai lineamenti spesso sfocati, perché se è difficile cercare verità in quel mondo criminale declinato al maschile, è ancora più difficile comprendere il ruolo femminile in seno a queste organizzazioni.
Luci ed ombre come abbiamo già scritto. Luci a volte fioche a volte abbaglianti. Ombre che a volte possono essere preludi di tramonti o preludi di albe.
Ancora oggi, mentre scriviamo, restano dubbi, misteri, sul ruolo delle donne in seno alle famiglie mafiose. I loro comportamenti, i loro ruoli nelle latitanze dei boss, nei traffici illeciti a volte ci restituiscono verità a volte no.
Abbiamo invece certezza di tante donne che hanno disobbedito alle feroci leggi e ai codici comportamentali di mafia, ‘ndragheta e camorra. Donne che hanno alzato le voce, che hanno girato le spalle, che sono fuggite.
Donne che hanno infranto le regole dell’omertà e hanno collaborato con la giustizia.
Solo alcuni nomi: Giovanna Cirillo Rampolla, Francesca Serio e Felicia Bartolotta Impastato che hanno dedicato la vita intera alla divulgazione dei valori dell’antimafia e della legalità e che si sono costituite come parte civile nei processi degli assassini contro i loro cari.
La loro eredità non è andata dispersa. Un’eredità importante, pesante, che permea tutt’ora le vite delle tantissime persone oneste. Nel loro cammino hanno incontrato innumerevoli ostacoli, hanno subito minacce. Hanno tentato di isolarle ma loro non si sono mai arrese.
E non è stato facile.
Basti ricordare le parole della collaboratrice di giustizia Carmela Iuculano che così definiva la mafia: “ La mafia è come il ragno dotato di una ghiandola con la quale fabbrica la ragnatela invisibile e soffocante per catturare gli insetti. Dopo averli immobilizzati con il veleno, il ragno si nutre di loro e per la preda diventa impossibile liberarsi, non riesce più a controllare il proprio io e pur di sopravvivere si scende a compromessi che ledono la dignità. Quando sembra possibile scappare il ragno percepisce i movimenti del prigioniero ed è subito pronto ad immobilizzarlo”.
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