Michela Murgia c’è. C’è in una sincerità sconcertante, contraddittoria, a volte scombinata, come il suo corpo ancestrale e le sue idee postmoderne.
Le chiamo idee, non spirito. Le idee passano, e quelle di Murgia non le ho condivise quasi mai. Lo spirito, invece, ha conservato una integrità in cui tutti ci riconosciamo.
Arriviamo al capolinea nudi e affamati. Di verità, di senso. Murgia, questa domanda, l’ha offerta. Con semplicità. Vuole entrare nella morte a occhi aperti, “presente a sé stessa”. Può sembrare azzardato, ma certi passaggi dell’intervista rilasciata a Cazzullo mi hanno ricordato Ozanam. Il santo francese, scomparso a 40 anni, così commentava la prossima dipartita: “Ho vissuto più della metà della vita”. E la scrittrice sarda: “Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera”. Aggiunge: “Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai”. La responsabilità, nel bene e nel male. La sensazione d’aver vissuto, e vivere ancora, una grande avventura, da impiegare seriamente, come i talenti evangelici. Murgia non ha dimenticato questa parabola. Potrà sbagliare, non sprecare.
Non so come gestirà questi mesi – che giustamente definisce “lunghissimi”, anche un giorno lo è, anche un respiro -: ma si è confessata ora, respingendo la retorica bellicista e riconsegnando, così, la persona malata alla sua dignitosa fragilità. Quando si muore non si perde nessuna guerra, l’esistenza non è un videogioco, al grande passo non sfugge nessuno.
Sì, il corpo muore. Saperlo rende umili. E l’umiltà, lungi dall’impoverire l’umano, gl’infonde energia, pienezza.
Michela Murgia, non sono stata una tua ammiratrice, ma credo che, adesso, tu stia scrivendo il tuo più bel libro, comunque vada, anche se – come ti auguro – dovessi attraversare ancora lunghissimi mesi, forse anni, forse altre dieci vite. Non susciti pena, trasmetti forza. La tua energia si è concentrata in un nucleo magnetico. E irresistibilmente attrae verso la luce.