20 anni dalla morte di Serafina Battaglia
Battaglia di nome e di fatto. Nome paradisiaco e cognome di guerra.
E Battaglia, alla guerra va. Sarebbe perdente. Ma vince, come un’amazzone, come una diavolessa, con quegli occhi di carbone, nera ma bella, bella perché nera.
È una Sharazade palermitana, Serafina la battagliera, che non ha più nulla da perdere da quando ha perso i figli. È vedova d’un mafioso, voleva vendetta, ma il primogenito è stato sconfitto e ucciso, il secondo che non aveva alzato un dito gliel’hanno eliminato lo stesso. Allora Serafina combatte. È madre, è dea, la sua casa è un tempio dove l’officiante è lei. Denuncia, accusa, vuota il sacco di fronte al giudice Terranova. Tentano di ammazzarla tre volte. Lei riesce a farli condannare tutti. Prima di Impastato è lei a definire la mafia “una m…”. Non invoca più vendetta. Parla di giustizia. Voce ferma, forte e chiara. Capelli avvolti nello scialle nero. Tutta coperta e mai così libera. Uscita dalla grotta, declama: se tutte le mogli dei morti ammazzati si decidessero a parlare, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo.
Quando un giornalista le fa notare che sua nuora, la moglie di suo figlio, non ha denunciato, ribatte: lei, con mio figlio, è andata a letto, ma io mio figlio l’ho fatto. Implacabile come solo una donna sa essere, scompare a 85 anni. Ma chissà se li aveva compiuti. Perché la data di morte è completa, della nascita però abbiamo solo l’anno. Accade così, in certi antri di un’Italia africana.
Onore alla battaglia di Serafina, a questa divinità ionia scura come la notte, che ha negli occhi il giorno.