Uno dei motivi per cui amo febbraio è il Festival di Sanremo. Ecco, l’ho detto, anzi scritto, e sono spacciata poiché, com’è noto, scripta manent.
Le ragioni sono molteplici e quasi tutte extramusicali: amore per la mia seconda città, voglia di leggerezza, ricordi di gioventù. Ciò non toglie che uno spazio per le canzoni – e i loro interpreti – lo riservi sempre. Non mi dilungo in analisi approfondite sui brani: Angelina Mango probabilmente meritava di vincere, voce bella e versatile, brano piacevole, faccia normale e sentore di fiori, come certe mie cugine, come gli assolati pomeriggi del Sud.
Sono rimasta piacevolmente sorpresa da Ghali, cantante prestato al rap: genere che, letteralmente, non sopporto, e di cui l’artista milanese è famoso portavoce. Infatti non l’ho mai seguito. In questa prova l’ho trovato misurato e credibile. Tra lui e Angelina corre una generazione, non a livello anagrafico (Mango è pure più giovane) ma sociologico: l’Italia delle radici e quella che verrà, che è già venuta, con tutti i torbidi della modernità.
E qui ci colleghiamo a Mahmood, il bellissimo Mahmood italo-milanese-sardo-egizio tanto più apprezzabile nelle ballate e nelle commistioni (che bella la cover di Dalla con Tenoresdibitti!) che nei motivi danzerecci stile-“Soldi”, ma tant’è.
Paolo Jannacci era fuori gara e non certo un giovincello però il duetto con Stefano Massini sulla dignità del lavoro mi ha ricordato alcuni pezzi migliori del suo compianto padre, in particolare “Vincenzina e la fabbrica” e la folgorante “Fotografia” presentata proprio a Sanremo. E nel protagonista della “Fotografia” Jannacci senior, da genio par suo, ritrasse precisamente il futuro, le generazioni fragili e complicate senza più radici, o troppe e volteggianti, non si sa bene dove né perché. Ma da non trascurare, anche perché non ne abbiamo altre!
Altro elemento che accomuna, sia pure in modi diversissimi, i quattro sanremesi è la mancanza della figura paterna. Due di loro l’hanno dentro di sé, naturalmente, e possiedono una solidità spirituale che nessuno potrà loro togliere; manca il contatto umano.
Non so se Sanremo sia lo specchio d’Italia, so però che un mondo senza padri è disancorato, latitante. Un mondo inclinato e in ansia, di sopravvissuti a chissà quale terremoto sociale/emotivo; un mondo che non smette di chiedere.
Due di loro l’hanno dentro di sé, naturalmente, e possiedono una solidità spirituale che nessuno potrà loro togliere; manca il contatto umano. Non so se Sanremo sia lo specchio d’Italia, so però che un mondo senza padri è disancorato, latitante. Un mondo inclinato e in ansia, di sopravvissuti a chissà quale terremoto sociale/emotivo; un mondo che non smette di chiedere.
Ecco, in questo declinare d’inverno, mentre scorrono le ultime immagini della kermesse canora, mi sono ritrovata a pensare a questa icona, il padre, così possente prima e così labile adesso, forse più mito che realtà, e che solo scendendo dall’Olimpo potrà farsi ritrovare, e finalmente amare.