film di Michel Franco
con Jessica Chastain e Peter Sarsgaard
In sala dal 7 marzo
recensione di Erica Arosio
Quattro stelle
Siamo nei territori intimisti del cinema di Ingmar Bergman: si parla di persone e di sentimenti che la macchina da presa sa raccontare con primi piani insistiti a investigare le impercettibili derive di esistenze in cerca di un po’ di pace.
Sylvia lavora in un centro di assistenza per persone fragili a cui si dedica con pazienza, mentre con infinito amore cresce la figlia adolescente che con eccessiva apprensione protegge dalle brutture del mondo. Forse ne ha conosciuto i pericoli, pensa lo spettatore fin dalle prime inquadrature, di sicuro ha sofferto, di certo vuole risparmiare alla ragazza quello che lei ha subito. Di cosa si tratti, lo scopriremo lentamente, nel corso di questo thriller delle emozioni diretto con piglio sicuro e interpretato da attori in stato di grazia (non a caso Peter Sarsgraard ha ricevuto il premio come miglior attore alla Mostra di Venezia).
Memory è la memoria, è il passato e quindi si allarga a tutti gli accadimenti che hanno fatto di noi quello che siamo. La memoria però è soggettiva, delicata come un’anima dai bordi in cachemire, la memoria non è un teorema matematico e non sempre è affidabile. Nel corso del tempo i ricordi si smagliano, si modificano, ricordiamo i momenti che abbiamo vissuto ma non sempre in presa diretta, a volte li ricostruiamo e li modifichiamo attraverso una foto o perché mutuati dai racconti degli altri. Sfumiamo i dolori per proteggerci e continuare a vivere oppure esasperiamo gli sbagli che ci hanno fatto troppo male per evitare di commetterli di nuovo.
Quando poi la memoria è il tessuto connettivo di una famiglia la faccenda si complica ancora di più, perché il non detto prende il sopravvento, irrompono i tabù e ciascuno fa ricorso alla rimozione per portare avanti la propria vita. In questo groviglio psicologico Michel Franco immerge la sua straordinaria protagonista così cangiante che inquadratura dopo inquadratura ci appare insignificante, addolorata, bellissima, seduttiva, trascurata, palpitante, innamorata, disperata, coi suoi capelli rossi che di volta in volta vediamo luminosi, appiccicati, sporchi, vaporosi, specchio dei suoi stati d’animo.
Siamo vicini a lei e al suo misterioso passato con cui è impossibile riconciliarsi, ci intenerisce la figlia dolcissima, una delle più belle figure di adolescenti viste negli ultimi tempi sullo schermo, ci respinge la freddezza della vecchia madre, di cui percepiamo ma non capiamo l’acidità che affiora e subito viene tenuta a freno, osserviamo i più giovani che pongono legittime, candide domande agli adulti ma destinate a restare senza risposta. Perché i grandi non hanno nessuna voglia di mettere sottosopra la loro vita e preferiscono che gli scheletri restino negli armadi.
E poi c’è lui, Saul, lo straordinario Peter Sarsgraard, un vecchio amico di liceo che Sylvia incontra a una rumorosa festa di compagni di scuola. Misterioso, smarrito, affetto da demenza allo stato iniziale, con una memoria a macchia di leopardo e un’anima bella, si inserisce nella narrazione accentuando ancora di più la fragilità dei ricordi ma al tempo stesso indicando una strada per la sopravvivenza, forse troppo facile e ottimista in un happy end a cui è difficile credere.
Un bellissimo film, la fotografia di un gruppo di famiglia in un interno dove, nonostante tutto, nonostante tutti, nonostante il passato, gli errori, i segreti si cerca un modo non per sopravvivere ma per ritagliarsi quei brandelli di felicità a cui ciascuno pensa di avere diritto.