Regia di Piero Messina
con Gael García Bernal, Bérénice Bejo), Renate Reinsve, Olivia Williams
In sala dal 21 marzo
Le metropoli oggi si assomigliano tutte: grattacieli di vetro, piazze vuote, geometrie eleganti e tanta freddezza con un senso incombente di estraneità. Proprio in una metropoli anonima del futuro prossimo Piero Messina, nove anni dopo L’attesa, ambienta il suo nuovo film, che ha un primo merito: non assomiglia per niente alle produzioni italiane a cui siamo abituati ma vola alto, con grandi aspirazioni, un prezioso cast internazionale e la capacità di gestire il genere science-fiction come in un kolossal hollywoodiano. La sfida mi piace, le emozioni non mancano come le riflessioni a fine film, quindi pazienza se non tutto è proprio perfetto.
Fin dalle prime inquadrature veniamo portati in un contesto fantascientifico caratterizzato da un senso di rarefazione che per tutto il film mi ha ricordato le atmosfere di Gattaca. Ovvero quei territori dove la fantascienza tracima nella metafisica. Siamo subito messi di fronte ai corpi sui quali interviene un’azienda con la sua tecnologia e immediato arriva un interrogativo: basta il corpo a definire un essere umano o in noi c’è qualcosa di più? Intorno a questa domanda si snoda tutto il film.
Chi manipola i corpi è un’azienda che sfrutta le fragilità umane e il dolore ma al tempo stesso tiene presente il lato caritatevole: Aeterna infatti utilizza una tecnologia che rende possibile impiantare i ricordi di chi non c’è più nel corpo di un “locatore”, un host retribuito che restituisce a chi ha patito una perdita la possibilità di passare ancora qualche giorno con la persona amata. L’aspetto fisico non sarà uguale a quello di chi ci ha lasciato, ma i ricordi sono quelli veri, originali. La sostituzione però non può durare all’infinito, quindi chi ricorre a “Another end”, a una nuova fine, deve sfruttare ogni istante per recuperare il tempo perduto, porre domande, chiedere scusa, abituarsi all’assenza, elaborare il lutto, in una parola dare un senso al dolore della mancanza e ricominciare.
Sal (Gael García Bernal) non si rassegna alla perdita dell’amata moglie Zoe morta in un incidente automobilistico. Guidava lui e il senso di colpa lo perseguita. Sua sorella Ebe (Bérénice Bejo), scienziata di Aeterna, fa di tutto per convincerlo a ricorrere a Another end e poter ritrovare così la donna. Sal non ne è convinto, preferisce trovare consolazione nei ricordi veri, guardare il vecchio walkman di Zoe, oppure ascoltare le canzoni amate da tutti e due, finché la disperazione vince e cede alla proposta della sorella. Nella sua vita irrompe così una rinata Zoe (Renate Reinsve) ma come sempre la tecnologia non è così facilmente controllabile, i ricordi immessi artificialmente in un corpo estraneo possono lasciare cascami e le emozioni non sono completamente governabili dalla tecnologia. L’incontro fra Sal e la locatrice prende strade impreviste in cui tutto si confonde.
L’ho detto, il film è ambizioso e temerario perché nel contenitore di quello che si potrebbe definire un mélo fantascientifico immette a piene mani dubbi etici e addirittura tentazioni filosofiche, aspirando a raccontare la fragile materia di cui sono fatti i sogni. E pure noi umani che in fondo siamo il nostro sogno e i nostri ricordi.
Il racconto procede con momenti ipnotici e qualche colpo di scena. I ricordi sono delicati come carta velina, il déjà vu è una sensazione che tutti abbiamo provato e che nessuno sa spiegare con esattezza, il dolore della perdita è famigliare a ciascuno anche se le reazioni sono diverse e vanno dalla disperazione alla rimozione.
Nella linea della storia principale si innestano altre vicende tutte con il retrogusto della mancanza. C’è la vecchia signora che si accontenta di vedere di nuovo il marito seduto in poltrona, in silenzio, c’è una madre che pur di avere ancora la figlia accanto accetta di rivivere le angosce della sua tossicodipendenza.
Aeterna, l’azienda produttrice della tecnologia, è attraversata da slanci umanitari e il lavoro svolto è qualcosa di più complicato di un semplice business. Anche perché è nelle mani di uomini e donne che, come tutti, hanno conosciuto il senso della perdita e cercano di rimediare come possono.
Si esce dal film con un misto di languore e speranza perché l’illusione di poter tenere in vita chi amiamo fino a quando saremo davvero pronti a dirgli addio è consolatoria e ci viene voglia di rivalutare i ricordi, i nostri e quelli di chi abbiamo vicino: sarebbe bello cristallizzarli in un chip per non perderli mai.