L’inferno della sezione femminile
Paolo Aleotti è stato a lungo giornalista Rai e ha passato dieci anni da inviato negli Usa, attraversando durante quel periodo tutti gli Stati della federazione e intervistando le persone più famose del momento, dai divi di Hollywood ai politici. Tornato in Italia, è stato a lungo ponte fra la redazione di Che tempo che fa e la struttura Rai. Insomma, ha alle spalle un corposo bagaglio professionale. Negli ultimi nove anni, aiutato anche dal pensionamento, ha intrapreso altre strade, dall’insegnamento a un progetto di volontariato nel carcere di Bollate: assieme ai carcerati, e il termine assieme va sottolineato, ha organizzato corsi e incontri sulla sua passione, la radio, intesa come mezzo di crescita e emancipazione per i detenuti. Con loro ha lavorato alla realizzazione di vari documentari radiofonici, gli allievi hanno familiarizzato col mezzo e hanno portato a termine tanti progetti, intervistandosi reciprocamente, raccontandosi. Paolo Aleotti riassume in una frase il momento in cui ha capito il senso di quello che stava facendo.
“Appena entrato nel carcere, la prima reazione, immagino comune a molti, era stata quella di guardare le persone che incrociavo chiedendomi che reato avessero commesso. Un giorno un detenuto mi ha detto: “Paolo, io non sono un reato che cammina, sono una persona che ha commesso un reato”. Da quel momento il mio sguardo è cambiato”
Da quella esperienza è nato un libro, Che sapore hanno i muri (CasaSirio editore), un viaggio all’interno del carcere, guidato dalle parole degli stessi detenuti. Marco, Giovanni, Alvaro, Gennaro, Marina, Simona, Ilinka, Celeste, si raccontano e s’intervistano reciprocamente narrando le loro vite “prima”, vite segnate da droga, rapine, spaccio, nomadismo e furti, delitti e reati di ogni tipo, ed alcuni affermano che la detenzione definitiva si è rivelata “un’opportunità per farci cambiare scala dei valori” e anche la strada per il percorso di riabilitazione e reinserimento nella società civile. Il carcere milanese vanta su questo fronte ottimi risultati, visto che la percentuale delle recidive è molto bassa rispetto ai dati nazionali.
Paolo Aleotti, come sei approdato al carcere di Bollate?
Grazie all’associazione Antigone che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti. Il carcere di Bollate rappresenta un modello all’interno del panorama italiano, dove disagio e sovraffollamento caratterizzano gli oltre duecento istituti detentivi italiani. Sono stato fortunato perché ho potuto agire in una struttura all’avanguardia, con una direttrice e operatori avanzati e motivati.
Ci sono differenze fra la condizione degli uomini e quella delle donne?
Moltissime. Le donne accettano meno il carcere, lo soffrono più degli uomini e nella stessa misura socialmente le detenute sono in qualche modo più sanzionate. Per me è stato difficilissimo coinvolgere le donne, mi guardavano senza vedermi, proprio per questo patire maggiore molte si lasciano andare, si imbottiscono di psicofarmaci e vivono quasi in una condizione di apnea. Le sezioni femminili sono le ultime in mezzo agli ultimi. Sulle donne pesa uno sguardo moralistico, come fossero peccatrici, come se dovessero pentirsi e espiare, nessuno perdona a una donna di essere finita in carcere e forse neppure loro lo perdonano a se stesse. Fra di loro aleggia un senso di vergogna incombente. Nel reparto maschile la situazione è diversa, alcuni rivendicano quello che hanno fatto, altri vogliono dimostrare di essere più cattivi, come fosse una medaglia, ma tutti o comunque la maggioranza, riescono a muoversi in un contesto come dire di “normalità”, tutti trovano il modo di ambientarsi, di farsi una ragione del loro stato.
Nel corso degli anni ci sono state modifiche nel numero delle carcerate?
La percentuale della popolazione femminile è immutata da un centinaio d’anni e si aggira intorno al 4/5 per cento del totale. Rappresentare una minoranza peggiora la condizione: le donne sono emarginate all’interno di un contesto di emarginazione. Appena succede qualcosa in un istituto penitenziario, la prima reazione è quella di chiudere la sezione femminile. Di isolare le donne. Appena ho cominciato a lavorare a Bollate formavo gruppi misti, ma dopo alcuni contatti “proibiti” fra detenuti e detenute ho dovuto ricominciare con classi separate.
Ti stai riferendo a contatti di tipo sessuale?
Sì, ci sono detenute, in particolare fra le rom, che cercano di farsi mettere incinta perché sanno così di poter uscire dal carcere. In generale il ricorso alla seduzione è sempre presente, sia fra gli uomini che fra le donne e sono molte le pressioni che devono fronteggiare in questo senso volontari/e e operatori/operatrici, in bilico fra ricatto e rivendicazione dell’affettività.
Com’è composta la popolazione femminile?
Ci sono molte donne rom e molte latine. Poi brasiliane, africane e donne dell’Est Europa. Le alleanze avvengono in particolare fra etnie mentre fra le donne in generale prevalgono competitività, invidie e sopraffazioni. La sorellanza di cui si parla fuori dal carcere dentro sembra sospesa. C’è un altro dato che io trovo impressionante: il 97,5 per cento delle detenute, quindi la quasi totalità, finisce in carcere per avere aiutato o coperto un uomo, oppure per un reato a cui è stata spinta da un uomo.
Da quello che dici sembra che le donne siano così inferiori da non poter neppure aspirare a diventare criminali in proprio e in aggiunta in carcere patiscono più che da libere la differenza di genere.
Ci stiamo immettendo in un discorso delicato. Vediamo come posso spiegarmi. Allora, il carcere è una struttura chiusa, un’istituzione totale si diceva un tempo, dove tutto si esaspera, dove le reazioni tendono ad essere primarie e prive di mediazioni. Gli uomini sono più uomini, le donne più donne, c’è poca bontà dovunque, ma fra le donne ancora meno. I maschi hanno maggiore facilità a creare fra di loro un clima cameratesco, con tutti i vantaggi e i limiti della condizione. Giocano a pallone, si fanno scherzi, fanno a botte, spesso come ragazzini delle elementari, per il gusto della lotta, non necessariamente per la violenza. Nella sezione maschile c’è un clima da caserma, da spogliatoio della palestra e questo in qualche misura aiuta la sopravvivenza e la sopportazione della detenzione. E’ come se gli uomini conservassero una memoria genetica delle tante situazioni in cui si sono trovati in gruppo e hanno dovuto solidarizzare, in nave, nelle guerre, nello sport. Le donne sono indifese, più spaventate, non hanno mezzi per reagire, tutto si enfatizza e per loro a esapserarsi è il dolore, in particolare la privazione degli affetti e la lontananza dai figli, ecco perché soccombono. Se il carcere è un problema per tutti, per le donne è una tragedia.