Un nuovo museo a Milano, da vedere di Adriana Giannini
Inaugurato poco più di un anno fa, alla fine del 2022, il MUSA, ossia il Museo delle scienze antropologiche, mediche e forensi dell’Università statale di Milano è ancora poco noto ai cittadini, ma merita veramente una visita.
Chi va a vederlo non deve essere impressionabile, ma sensibile ed empatico perché lo scopo di mostrare i segni fisici della malattia, dei maltrattamenti e della violenza più efferata è duplice: far capire come l’umanità sia stata e sia tuttora capace di violare i più basilari diritti umani e spiegare come la scienza possa dare un importante contributo sia dando voce a coloro che sono scomparsi nei secoli, sia tutelando i più deboli e indifesi attuali.
Fortemente voluto dalla professoressa Cristina Cattaneo, docente di medicina legale presso il Dipartimento di scienze biomediche della Statale di Milano, il Museo raccoglie e amplia l’eredità del Labanof, il Laboratorio universitario di Antropologia e Odontologia forense, rendendo fruibili anche da un pubblico non specializzato e dagli studenti delle scuole medie superiori non solo la sua ampia collezione, ma anche gli scopi di una disciplina dalla quale spesso scaramanticamente si preferisce tenersi alla larga.
E’ stato grazie alla cooperazione e al contributo delle Fondazioni Cariplo, Isacchi Samaja Onlus e Terre des Hommes nonché ai patrocini delle Società di medicina legale e delle assicurazioni e dell’Ordine di medici di Milano che l’Università ha potuto realizzare le sei efficaci sezioni del museo dotate di pannelli, diorami, vetrine, animazioni e video.
La prima sala introduttiva spiega come i resti ossei umani possano “parlare” rivelando chiaramente sesso, età, etnia, malattie, carenze alimentari e segni di violenza. Segue una ricca sezione storico-archeologica costituita dai migliaia di reperti ossei provenienti da cimiteri e fosse comuni milanesi a partire dall’età romana fino ad arrivare all’epoca contemporanea. Sono di grande interesse sociologico perché come siano cambiati nel corso dei secoli il tenore di vita e l’attenzione soprattutto nei confronti dei bambini e delle donne. La terza sezione è dedicata all’importante e misconosciuto diritto all’identità. Commoventi videointerviste fanno capire quanto sia importante per i parenti sapere se un proprio caro è vivo o morto e poterne celebrare il funerale. Più scenografica e forse più nota al pubblico per i numerosi telefilm polizieschi è la sezione dedicata al ruolo delle scienze forensi nell’assistere la giustizia; qui però si evidenzia in particolare lo scrupolo con cui va eseguito questo tipo di indagini.
Anche nel caso di sospetti abusi e maltrattamento sui vivi ai quali è dedicata un’apposita sezione è fondamentale il ruolo delle medicina legale che riesce a evidenziare persino forme subdole di violenza esercitate sui più deboli e indifesi siano essi bambini o animali.
Il percorso della mostra è chiuso da un angolo immersivo cui i filmati raccontano con grande efficacia uno dei peggiori naufragi avvenuti nel Mediterraneo, quello di un peschereccio avvenuto il 18 aprile 2015 in cui persero la vita oltre mille migranti provenienti dalla Libia. Il barcone fu recuperato e rimorchiato nel porto di Melilli, in provincia di Siracusa, e qui fu portato avanti il pietoso e difficile tentativo di identificare tutti gli adulti e gli adolescenti che viaggiavano stipati fino all’ inverosimile sul natante. Il Dipartimento di Milano, con Cristina Cattaneo in testa, fu insieme ad altri volonterosi scienziati italiani impegnato in questa opera di riconoscimento delle salme, un coraggioso tentativo in buona parte riuscito di restituire a queste persone i diritti umani che erano stati loro negati.
Il MUSA si trova a Milano, al 7 di via Ponzio, è aperto gratuitamente al pubblico ed è visitabile, anche grazie al contributo dei volontari del Touring Club Italiano, martedì, mercoledì e giovedì dalle 14 alle 18, venerdì dalle 9 alle 18 e sabato dalle 9 alle 13. La foto che mostra la prof. Cristina Cattaneo all’inaugurazione del MUSA è cortesemente fornita dall’Università degli Studi di Milano. Le altre due sono di Adriana Giannini, giornalista scientifica.