Patrizia Vicinelli, la poetessa tormentata
Mi è capitato, giorni fa, di vedere il biopic agiografico sulla poetessa Alda Merini Folle d’Amore: diretto da Roberto Faenza e liberamente ispirato al romanzo di Vincenza Alfano, Perché ti ho perduto.
Folle d’Amore aderisce, a mio parere, al prototipo di biografia di artisti maledetti che i registi girano volentieri perché accolti favorevolmente dal pubblico, sopratutto nel caso di Alda Merini diventata ormai un fenomeno mediatico.
Ma non voglio parlare del film bensì del fatto che quella sigaretta sempre tra le dita, il fumo rarefatto mi hanno fatto venire in mente la storia di un’altra poetessa tormentata.
Il 22 febbraio 2024 è tornata in libreria Patrizia Vicinelli, la poetessa pioniera della poesia visiva, con il volume ’La nott’e’l giorno.
L’opera poetica’, edita da Argolibri casa editrice marchigiana è a cura di Roberta Bisogno e Fabio Orecchini.
Patrizia Vicinelli è una delle poetesse italiane dimenticate, autentica icona corporale di rivolta e libertà, una figura poliedrica e forse unica nel quadro della letteratura italiana del secondo Novecento; un’artista che ha privilegiato la presenza viva distinguendosi per le sue performances vocali.
L’hanno definita la Carmelo Bene al femminile, la Patti Smith italiana; la poetessa tormentata che ha vissuto pericolosamente, per lei bisognava vivere “creativamente rischiando”.
Non solo, Patrizia è bella e affascinante, spesso ricordata dagli amici con un bicchiere in una mano e una sigaretta nell’altra, capelli biondi e uno sguardo che ti inchioda dritto nell’anima. Ha avuto una vita complicata, tragica, segnata da una forte tendenza autodistruttiva.
Tanti gli amanti, due figli da padri diversi, una vita vissuta senza risparmio e senza nessun pentimento, lasciando che se ne impregnasse la sua poesia
Visione onirica e arti visive, cinema sperimentale e performance, collage e ready made, dazebao e slogan di protesta, suono e fisicità della parola, convergono in uno stile unico e inconfondibile, di difficilissima collocazione nel panorama letterario italiano. E infatti la sua poesia visiva ha avuto scarsa circolazione, perché pubblicata in riviste underground dall’esistenza breve e dalla diffusione limitata.
Sono stanca di raccontare
a tutti
la mia storia.
Perché non la capiscono
la mia storia
non credono sia mia.
E finirò col credere
che la mia storia
è un’altra.
Nasce a Bologna nel 1943 da una famiglia borghese benestante, dalla quale andrà via giovane, rompendo ogni legame. Si è spenta a Bologna il 9 gennaio del 1991, a seguito di complicazioni da AIDS.
Dopo aver conseguito il diploma magistrale, si iscrisse alla facoltà di magistero, ma non portò a termine gli studi. È un periodo rivoluzionario e Patrizia vive e studia a Bologna, che in quegli anni è stata una fucina di cantautori, scrittori, poeti, pittori, registi e fotografi.
Impegnata nelle battaglie femministe e operaie, la sua poesia presenterà il timbro del suo tempo e la rabbia dolorosa di chi si oppone all’inesorabile.
Patrizia è poliedrica e i suoi interessi spaziano tra poesia, teatro e cinema. È una donna esuberante, dall’umore instabile, facile alla depressione, che fa uso di droghe, e alcool, inseguendo l’epica eroica del poeta che scrive col sangue su fogli di carne e la cui esistenza aggrovigliata è stata nutrimento per una poesia che è stata specchio della vita.
“Prima scendo in vita per poi scrivere” diceva Patrizia Vicinelli al suo amico poeta Alberto Masala, durante le passeggiate che insieme facevano per le vie di Bologna e in lei vita e opera hanno sempre coinciso.
Patrizia come poetessa esordisce presto, pubblica i primi testi sulla rivista di poesia «Ex» e collabora come scrittrice di letteratura e cinema con la rivista «Quindici».
Sono i primi anni Sessanta e ha 19 anni quando pubblica E capita sulla rivista Bab Ilu del poeta e amico Adriano Spatola che, nel salotto di casa, la mette insieme con un gruppo di amici dell’avanguardia letteraria del gruppo ’63.
Escono solo due numeri ma fanno storia. Un anno dopo la poetessa si avvicina alle neoavanguardie e lavora al teatro sperimentale con Aldo Braibanti ed Emilio Villa.
Trasferitasi a Roma, tra il 1963 e il 1965 conobbe artisti e autori di teatro, cinema e musica sperimentale, dando il via alla grande stagione del cinema underground italiano, collaborando dapprima con Alberto Grifi (In viaggio con Patrizia e Trasfert per kamera verso Virulentia), e negli anni successivi, con Gianni Castagnoli (La nott’e’l giorno) e Mario Gianni.
Nel 1964, scrive per il cinema sperimentale in collaborazione con il cineasta Alberto Grifi; nel 1966 partecipa al convegno di La Spezia del Gruppo 63 dove si esibisce con l’opera à, a. A. facendo esplodere il suo talento performativo.
La sua performance riscuote un grande successo e celebre resta la sua lettura che richiamò l’attenzione dei presenti, tra cui l’editore Lerici, che l’anno seguente le pubblicò su Marcatrè un vinile con la registrazione delle letture e il libro à,a.A;
Il tormento della voce, come quello della parola scritta, fanno parte della sua ricerca non solo poetica ma anche filosofica; la poetessa divenne nota per le sue performance vocali di rara potenza, la sua opera poetica, che sia grafica o sonora, ha sempre forza corporea e una qualità scenica eccezionale. Ricorre a caratteri grafici e tipografici insoliti quando scrive e si serve di tutto il corpo quando recita. Il linguaggio di Patrizia, che è un tutt’uno con il suo modo di essere, di vivere, affascina intellettuali come Emilio Villa, Adriano Spatola, Alberto Grifi, Franco Beltrametti.
Patrizia è la poesia, la sua voce, il suo corpo,
la sua mutevolezza è poesia che cammina,
che attraversa, come una meteora, il mondo.
Dopo la pubblicazione della sua opera prima e la dissoluzione del Gruppo 63, avvenuta nel 1968, intraprese una ricerca più personale e isolata.
Non si trattava più di occupare, secondo la logica avanguardistica tradizionale, un posto paradossalmente dominante nel campo letterario, ma di rifiutare qualsiasi
compromesso, collocandosi in una posizione marginale.
Dal giro dei grandi editori resta fuori, orgogliosamente lieta di “non essere inclusa in certe antologie” perché i suoi testi sono volutamente spiazzanti, non rispondono alle regole, non si adeguano alle mode. Ma emarginata è stata anche per le sue scelte di vita. Una outsider in piena regola, senza timore di pagarne il prezzo.
Il suo canto selvaggio è stato accostato a Dino Campana e agli espressionisti e ha assorbito le esperienze neoavanguardiste del Gruppo 63, ma lei si discosta da tutti gettandosi a capofitto nel fuoco ardente di una vita vissuta senza risparmio e lasciando che se ne impregnasse la sua poesia.
Il regista Alberto Grifi, con cui condivide gli anni 60, traccia una sorta di diario della poetessa con In viaggio con Patrizia 1965-2007.
Patrizia Vicinelli in quegli anni viaggia e gira insieme ad Alberto Grifi diversi cortometraggi, partecipa a mostre di poesia visiva e collabora a varie riviste; ha una figlia Anastasia con Gianni Michelagnoli, mercante d’arte e il figlio Giovanni da Gianni Castagnoli con cui collabora alla realizzazione del film «La nott’ e ‘l giorno».
Per sua ammissione vive coi soldi dei due padri dei rispettivi figli, perché si è sempre rifiutata di fare qualsiasi cosa.
Dal 1968 partecipa a numerose mostre di poesia visuale in tutta Italia e si esibisce in performance di lettura in festival nazionali ed internazionali.
Quelli sono gli anni in cui Patrizia continua a lavorare come attrice, ispiratrice/musa, sempre di film o cortometraggi d’avanguardia e mai destinate al pubblico di massa.
Nel 1968 Vicinelli, insieme con altri artisti e intellettuali, si schierò in difesa di Aldo Braibanti, processato per la sua omosessualità in virtù dell’ancora vigente legge sul ‘plagio’, eredità del fascismo.
(Il regista Gianni Amelio, ne ricostruisce la storia nel film “Il signore delle formiche”. Il film è ambientato nella provincia italiana, si sviluppa nell’arco temporale che va dal 1964 al 1968 e racconta del professore 45enne, Aldo Braibanti: poeta, drammaturgo, ex partigiano, ex dirigente del partito comunista, studioso dei comportamenti delle formiche, accusato di aver «ridotto in totale stato di soggezione» il 23enne Giovanni Sanfratello, per due anni suo compagno e poi rapito, letteralmente, dalla famiglia che rinchiuse il ragazzo in un ospedale psichiatrico padovano e denunciò Braibanti per «plagio».)
La condanna di Braibanti nel 1968, ebbe conseguenze anche per la Vicinelli che, in evidente odore di montatura, è accusata e denunciata per il possesso di due grammi di hashish.
Nel 1969, per evitare la condanna per il possesso di hashish, alla quale non riesce a sottrarsi per un accanimento poliziesco e giudiziario nei suoi confronti, Patrizia Vicinelli fugge in Marocco dando avvio a un secondo periodo nella propria opera.
A Tangeri, crocevia linguistico e post coloniale, noto rifugio per intellettuali e artisti europei in dissenso con le leggi dei loro Paesi d’origine, la scrittrice si allontanò dalle prime scelte poetiche, prediligendo collage, disegno e ready-made (Apotheosys of schizoid woman risale a quel periodo) orientandosi verso la poesia grafica, ma anche immergendosi nel misticismo e nell’occulto.
Tra il 1969 e il 1970, compose Apotheosys of schizoid woman, pubblicata nel 1979 nel periodico Tau/Ma a cura di Mario Diacono e Claudio Parmiggiani che, su richiesta dell’autrice, viene stampata da destra a sinistra con pagine a ritroso.
Fatto ritorno in Italia fu arrestata, per motivi legati alla droga una prima volta nel 1976 e poi, dopo un breve periodo di latitanza, nel 1977 a Roma e rinchiusa nel carcere di Rebibbia fino alla primavera del 1978. In quel contesto, durante la prigionia, riscrisse in chiave femminista la fiaba di Cenerentola e la mise in scena con le detenute realizzando un’opera teatrale che ricevette l’attenzione di numerosi quotidiani, nonostante la rappresentazione a porte chiuse.
Nel contempo moltiplicò gli stili e gli approcci creativi (narrativa, saggistica, performances). Nel 1983, apparve come attrice, nel caotico affresco di romanità alla deriva che è Amore Tossico, di Claudio Caligari, nel ruolo di una pittrice.
Patrizia Vicinelli ha infatti sperimentato la parola e la scrittura nelle loro molteplici forme facendole interagire con altri linguaggi tra i quali l’arte, la performance, l’installazione, il cinema, il teatro.
Lo sforzo di oggettivare e di condividere la propria esperienza segnò per Vicinelli un terzo periodo, in cui tornò a modalità più tradizionali di scrittura.
Dopo varie stesure, pubblicò presso Aelia Lelia il volume Non sempre ricordano (Reggio Emilia 1985), traendone, un anno dopo, una videoperformance con la regia di Gianni Castagnoli.
Questo libro che vi presento stasera (non sempre ricordano), è un poema epico che si struttura in otto capitoli e raccontano una storia precisa. Si parla di mito e si parla di colpa e innocenza. C’è chi pensa che le due cose siano inconciliabili, perché colpa e innocenza sono una certezza ma non è vero. In realtà a livello più profondo e di analisi, e quindi dal punto di vista esoterico, il conflitto tra colpa e innocenza è sempre una svista. Non c’è mai questo problema davvero, quindi alla fine colpa e innocenza sono parole assurde. Per questo c’è un mondo superiore e un mondo inferiore, paradiso e inferi, e la realtà che è poi carcere, è la gente ammazzata a colpi di elettroshock. Non è un apriori; mentre le cose succedevano eravamo succubi. Ma per essere nel mondo in modo attivo, bisogna trovare un senso per dire le cose lo stesso. Lo scrivere, infatti, riguarda il dare: e avere uno scrigno pieno è avere il desiderio di dividerlo con amore. Ma se rimane troppa rabbia, non si riesce a dare di più e ci si tiene quei tesori per sé. Il mito serve molto a questo senso perché dà una dimensione oggettiva, che va al di là delle storie personali e potenzia.
(L’intervento di Patrizia Vicinelli è tratto da “L’abito della chimera”, a cura di Carlo Alberto Sitta con la collaborazione di Maria Luisa Vezzali e Bianca Garavelli – Laboratorio di Poesia di Modena 1979-1989)
Considerato il suo capolavoro, quest’opera si ispira a un dazebao (cartelloni incollati sui muri durante la rivoluzione maoista): il testo comprende stilemi tipici della retorica contestataria degli anni Settanta, urli e slogan, inframmezzati a momenti onirici o contemplativi.
il simulacro degli eroi mentre svanivano
mischiati a immagini di dei di avi
che carezzavano ricordi,
indugiando,
(appena decomposti,
nell’insistente candore-umido-lunare-,
durante la notte
che non aveva cessato di battere
al fine della loro inesorabile disgregazione)
… un colpo secco e strano quella volta
bussano?
Non sempre ricordano è una critica pungente, acuta e senza filtri ai suoi contemporanei, che punta il dito su chi si è adeguato, su chi ha gettato la spugna e non ricorda, perso nell’oblio dell’individualismo e perdendo di vista il bene collettivo.
Tra il 1980 e il 1988, lavorò alla stesura di un romanzo incompiuto, Messmer.
A partire dal 1986, pubblicò alcuni articoli di politica internazionale, per esempio sul Cile di Augusto Pinochet o sull’apartheid, scrisse saggi su scrittori italiani contemporanei come Pier Paolo Pasolini o Stefano Benni e collaborò a numerose riviste tra cui Ex, Quindici, Che fare, Marcatré, Alfabeta.
Nel 1989, nell’Autodizionario degli scrittori italiani, alla voce Patrizia Vicinelli, si descrive con tono autoironico: “Molto complessa esistenzialmente la sua vita, è sempre o quasi di ottimo umore e molto fiduciosa in un futuro che si prospetta sicuramente radioso.”
Di Patrizia Vicinelli, che oggi avrebbe avuto 81 anni e che di questo traguardo forse avrebbe avuto orrore, che cosa rimane nella contemporaneità? Probabilmente le nuove generazioni, anche le più alternative, non la conoscono, ma quando succede è folgorazione.
L’attenzione sull’opera dell’autrice è testimoniata, ad esempio, dalla prima mostra istituzionale (novembre 2021/febbraio 2022) – a cura di Lisa Andreani – dedicata alla sua opera, al Museo Macro di Roma intitolata, non a caso:
Chi ha paura di Patrizia Vicinelli? Citando un dramma di Edward Albee, Chi ha paura di Virginia Woolf ?
Probabilmente perché quando Vicinelli era in vita la sua poesia e la sua vita si univano in una forma unica e spietata di esistenza, dunque un vero e proprio tributo e riconoscimento istituzionale della figura e dell’eredità di Patrizia Vicinelli.
Altre prose saggistiche, pubblicate postume, permettono di sintetizzare la sua posizione ideologica: una dolorosa consapevolezza di aver perso una «grande giusta battaglia di generazione».
Ho cercato di essere umano fra quelli che chiamano umani
trattandoli come si deve,
con la fiducia che ci fosse carne
sangue uguale sotto l’ombra gigantesca che li avvolgeva.
Ho sperato di essere io a sbagliare,
sapevo di essere pazza comunque, nonostante loro,
sapevo anche che la mia follia sarebbe cresciuta con me.
La follia è uno strazio e nello stesso tempo può essere un dono.