Un documentario di Phil Grabsky
In sala il 9 e 10 aprile
Quattro stelle
Crediamo di conoscere tutto di Edward Hopper perché abbiamo visto decine di volte le sue opere, perché la più famosa, I nottambuli, il drugstore con tre avventori al banco e la vetrata affacciata sulla strada deserta, è stata citata e rivisitata in mille modi e fra i clienti qualcuno ha infilato persino Batman.
E invece del pittore americano ci è famigliare la versione bidimensionale, quella di un artista declassato a illustratore popolare e dei suoi magnifici quadri abbiamo presenti solo le linee essenziali e non i preziosi dettagli di un genio del disegno e del colore.
Vedere su grande schermo le sue opere in questo documentario è una sorpresa. Prima di tutto per i colori che sono sempre magnifici e armoniosi, sfumati e mai piatti, con tonalità complesse, frutto di lunghe ricerche e prove e a colpirci sono le trasparenze e la leggerezza, gli abiti femminili lasciano intuire il candore della pelle, le stoffe sembrano galleggiare sulle curve dei corpi e i volti non sono accennati ma disegnati con dettagli precisi e espressioni cangianti.
Quanto è bella e quanto è personale l’America di Hopper (1882-1967), ben lontano dal realismo fotografico il pittore guarda il mondo e offre in ogni opera una sua lettura molto personale, sempre per sottrazione. Si concentra sui particolari che lo colpiscono, li isola e elimina tutto il resto e lo stesso procedimento lo applica quando disegna persone. I suoi soggetti hanno sempre il privilegio di essere protagonisti, ognuno raccontato nella sua individualità e anche quando in un quadro compaiono più persone, queste non dialogano perché ciascuno racconta la sua storia. Chi la interpreta come solitudine, chi con la necessità di un momento di riflessione, chi con la voglia di scoprire il prima e il dopo di quel momento bloccato per l’eternità. Ma non solo la città con le sue architetture racconta Hopper perché molte delle sue opere ci restituiscono la bellezza di un luogo che amava e dove aveva casa, Cape Code. Disegna così i cottage colorati in legno, la natura, il faro, il mare. E che si tratti di New York o della penisola sull’Atlantico l’altra grande protagonista è la luce. Restituita con tutto il suo mistero.
Il documentario di Grabsky non trascura l’uomo. Introverso, concentrato sul suo lavoro, grande amante del cinema da cui è ricambiato (fra i suoi più grandi ammiratori Alfred Hitchcock e David Lynch, oltre a fotografi e musicisti), un’unica donna, la moglie Jo, gelosissima al punto di aver voluto essere la sua unica modella: all’origine di ogni figura femminile c’è lei, Jo, modificata, declinata, ringiovanita, trasformata persino in una procace segretaria in stile grandi firme.
Ascoltiamo interviste (succinte) con Edward Hopper e la moglie (appena più loquace) e pareri di critici e artisti. Vediamo i luoghi e poi i quadri che hanno ispirato e salta all’occhio il grande lavoro di interpretazione e elaborazione artistica. Ma quello che davvero incanta nel film sono le opere che pensavamo di conoscere e che invece ingigantite sullo schermo ci danno tutto il piacere di una rivelazione.
Al cinema solo il 9 e 10 aprile (elenco sale su nexodigital.it)