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    Home»Pari opportunità»Donne politica»25 Aprile: la Liberazione delle donne
    Donne politica

    25 Aprile: la Liberazione delle donne

    DolsBy Dols25/04/2024Updated:26/04/20242 commenti7 Mins Read
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    25aprile
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    25 Aprile: la Liberazione delle donne

    di Gianna Melis

    Nella Resistenza italiana contro il nazifascismo migliaia di donne ebbero un ruolo chiave, ma questo impegno non fu riconosciuto, pienamente, neppure dai partigiani. Servì per creare il nostro futuro di libertà e parità.

    Da staffette a combattenti

    Portavano cibo nei nascondigli ai partigiani, li nascondevano e li curavano, facevano la staffetta trasportando armi e materiali di propaganda. Rischiavano la vita e quando venivano catturate dal nemico andavano incontro a torture e violenze sessuali. Ma incredibilmente poche partigiane erano armate. Le donne combattenti riconosciute – si legge nel sito dell’ANPI – furono 35 mila e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna, di queste 5mila furono arrestate e torturate, più di duemilacinquecento vennero deportate in Germania, oltre 2800 fucilate o impiccate. Ne caddero in combattimento più di mille ma solo 19, nel dopoguerra, vennero decorate con la Medaglia d’oro al valor militare: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu. 

    L’impegno durante la resistenza fu utile per cambiare la percezione femminile del sé. Quelle donne, che fino ad allora avevano conosciuto soltanto divieti, durante la lotta di liberazione si incontravano, si organizzavano e prendevano coscienza che il loro ruolo era fondamentale per la Liberazione dell’Italia, ma anche per la loro emancipazione. Donne tradite, violentate – era meglio non dirlo per evitare di essere disonorate – alle quali non era permesso di pensare autonomamente, di studiare, di esprimere la loro intelligenza. Con la lotta di Liberazione, sperimentarono nuovi modi di vivere e acquisirono la consapevolezza di poter agire, imbracciare un fucile come gli uomini, dormire al freddo, fare la guardia, combattere contro i tedeschi. Un atto rivoluzionario per le partigiane che servì a dar loro il senso del proprio valore e della propria forza. Ovviamente non tutti, anche tra i compagni di lotta, erano d’accordo su queste scelte: molti criticavano la scelta femminile di abbandonare la casa e la famiglia per impegnarsi nella guerra partigiana, che implicava anche promiscuità e assenza di controllo familiare. Durante la Resistenza, la donna si scopre non solo più libera, ma anche piena di risorse: “Può sentirsi, finalmente, un individuo. Una persona degna d’attenzione e dotata di valore di per se stessa, non solo in relazione al proprio ruolo di moglie o madre” scrive Benedetta Tobagi in La Resistenza delle donne, dove riporta testimonianze su come molte partigiane fossero consapevoli che la promiscuità con gli altri uomini mettesse a rischio la loro reputazione, allora un bene essenziale per essere accettate in società. «È facile dire di una donna: “fa la puttana” quando vive con mille uomini. D’altronde, se entravo alla sera in una stalla con trenta ragazzi, non potevo mica pretendere che la gente pensasse che dicevo il rosario. Insomma, io lo sapevo e l’ho accettato tranquillamente che dicessero che facevo la puttana. Ma ho vissuto da cattolica» sottolinea l’ex partigiana, Tersilla Fenoglio, nome di battaglia Trottolina.

    Alla conquista della parità

    Le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata, a volte, hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane. Lo racconta bene Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica) nel libro Con cuore di donna. Per esempio, i suoi compagni ritenevano che non dovesse avere la pistola. Lei all’apposto era convinta che in alcuni casi l’arma le avrebbe permesso di difendersi dai nemici. E così, su un autobus affollato, ne rubò una a un uomo, ma i compagni cercarono di sottrargliela. “Il problema è il tabù delle donne che esercitano la violenza, che era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere. Le pochissime donne a cui alla fine fu consentito l’uso delle armi hanno sempre raccontato in seguito i problemi che questo creava loro, in termini culturali e pratici”. afferma la storica Simona Lunadei, autrice di diversi testi sull’argomento, tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani del 1965, Le donne nella resistenza e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.

    Altri partigiani, invece, erano consci che le donne stavano facendo qualcosa di grande che peraltro non era richiesto dalla legge: “Il primo riconoscimento – scriveva Marisa Ombra, partigiana, in un suo articolo pubblicato su Patria Indipendente del novembre 2016 – l’abbiamo avuto proprio dai partigiani con i quali vivevamo, perché loro sapevano che noi donne non eravamo obbligate a fare la guerra. I ragazzi erano obbligati, perché c’erano i bandi dei tedeschi, dei repubblichini, e se non si presentavano diventano disertori, rischiando la fucilazione o la deportazione. Per noi non c’erano stati bandi, l’abbiamo fatto perché ci credevamo, volevamo fare la nostra parte. Io credo che riconoscessero che era la prima volta che le donne entravano in guerra, e ci entravano in quel modo, in prima fila; uscivano dal ruolo familiare e si assumevano responsabilità fondamentali, militari, politiche, sociali”. Marisa Ombra ha scritto anche il bellissimo libro ”Libere Sempre” Una ragazza della resistenza a una ragazza di oggi.

    Sebben che siamo donne, paura non abbiamo

    Armate o disarmate, d’ogni fascia sociale e di ogni professione, giovani e meno giovani, meridionali e settentrionali, antifasciste per scelta personale o tradizione familiare, le donne hanno dato alla Resistenza un grande contributo, partecipando attivamente anche alla lotta armata. La lotta di Liberazione ha offerto alle donne la «prima occasione storica di politicizzazione democratica» ma ci vorranno molti decenni per scalfire veramente i modelli culturali maschili e patriarcali. A Liberazione avvenuta, infatti, in alcune città liberate le donne sono state escluse da molte sfilate partigiane. Elsa Oliva, comandante di una brigata, col titolo di tenente, racconta “Nella lotta di liberazione non sempre la donna era accettata come lo sono stata io. Anche nelle formazioni dei garibaldini la donna serviva per lavare, rammendare, al massimo fare la staffetta. E rischiava più dell’uomo, perché le staffette rischiavano moltissimo: io avevo un fucile per difendermi, ma la staffetta doveva passare tutte le file, andare in mezzo al nemico, disarmata, e fare quello che faceva. E se era presa….”

    Le donne sono le protagoniste principali (non uniche) anche della Resistenza civile. Alcune loro azioni di massa ottengono risultati estremamente importanti da un punto di vista strategico e politico. Due esempi: le donne che, nella Napoli occupata del settembre 1943, impediscono i rastrellamenti degli uomini, facendo svuotare i camion tedeschi già pieni, e innescando così la miccia dell’insurrezione cittadina. Ancora, le cittadine di Carrara, nel luglio 1944, resistono agli ordini di sfollamento totale impedendo ai tedeschi di garantirsi una comoda via di ritirata verso le retrovie della linea Gotica. 

    Durante la Resistenza si sono intrecciati, antifascismo e femminismo, e un forte appello alla bella politica, fatta di onestà e serietà, inestricabilmente connessa con la responsabilità, individuale e collettiva, che rimane una costante nelle storie di tante. “Sono ex prof, ex tante altre cose, ma non ex partigiana: perché essere partigiani è una scelta di vita”, dichiarò Lidia Menapace, un’altra grande figura di donna impegnata fino alla fine dei suoi giorni.
     

    La lotta di liberazione delle donne dal nazifascismo è stata l’inizio dell’emancipazione femminile. Credendo in un futuro migliore, con il loro coraggio, lo resero possibile. Noi siamo l’avvenire per il quale hanno lottato. A loro la nostra immensa riconoscenza. Per sempre.

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    2 commenti

    1. caterina-torre-hp
      Caterina Della Torre on 25/04/2024 16:45

      Bellissimo articolo.

      Reply
    2. Nadia Boaretto on 27/04/2024 07:28

      Contro lo Stato della violenza
      Ora e sempre Resistenza.
      Delle Madri Costituenti
      Perpetuiamo le menti
      E gli accenti.

      Reply
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