La pratica di Chiara Camoni (Piacenza, 1974; vive e lavora a Seravezza, Lucca) attraversa molteplici forme espressive, spaziando dal disegno alle stampe vegetali e alla scultura, con particolare attenzione alla ceramica. La sua poetica si contraddistingue per l’uso di manufatti che richiamano il mondo domestico e oscillano al confine tra oggetto e opera d’arte. Le sculture si caratterizzano per l’impiego di materiali naturali da cui derivano le tonalità terrose e la mutevolezza delle configurazioni che connotano la produzione dell’artista. Camoni raccoglie lungo i fiumi e nei boschi diversi tipi di erbe, bacche e fiori che integra nei suoi lavori insieme all’argilla e alla cenere attraverso processi organici. Questi elementi vengono poi modellati, riassemblati o intrecciati e talvolta anche fusi a creare diversi corpus di opere, alcuni dalle fattezze zoomorfe – come serpenti o falene – e altri evocativi del linguaggio architettonico, come i pavimenti composti da frammenti di marmo. Attraverso la ripetizione e la ritualità del gesto, l’artista esplora il rapporto con l’artigianato, il suo sviluppo nella storia delle civiltà e la sua eredità nel panorama contemporaneo.
La mostra di Chiara Camoni “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.”, a cura di Lucia Aspesi e Fiammetta Griccioli, al Pirelli HangarBicocca in via Chiese 2, Milano, rimarrà aperta fino al 21 luglio.
Vorrei partire dall’ultima mostra che l’ha visto protagonista, “Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse.”, al Pirelli HangarBicocca di Milano, visitabile fino al 21 luglio. Mi ha colpito la sua scelta di lasciare attraversare dalla luce naturale lo Shed [la prima sala dell’Hangar Bicocca dedicato alle mostre] che ho visto in molte altre occasioni oscurato dal buio. Ho avuto la sensazione che volesse portare lo spettatore nello spazio intimo di un giardino, abitato da presenza naturali, come i fiori, e animali, come i serpenti che disegnano il tracciato a terra o le sculture in alluminio di cani, ma anche ibride e fantastiche, come gli spiritelli impressi sui rotoli di seta. Può raccontarci qualcosa dell’idea che ha dato forma alla mostra e delle figure che la abitano?
Appena entrata nello spazio ho sentito il bisogno di raggiungere il centro, e da lì, ho iniziato a guardarmi intono. Ho chiesto di aprire le grandi porte di metallo per far entrare la luce naturale. A quel punto lo spazio era visibile nella sua interezza, non più smaterializzato dal buio. Ho pensato di suddividerlo costruendo un disegno a terra, senza ricorrere a pareti che avrebbero bloccato lo sguardo. Le opere stesse disegnano lo spazio, creano corridoi e stanze, lo rendono domestico, pur lasciando libero lo spettatore di intraprendere il proprio percorso. Si incontrano animali, fiori, spiritelli, figure misteriose e un po’ sacrali: ognuna di loro chiede una relazione, un dialogo. È una mostra piena di sguardi: ci sono tanti occhi, che guardano lo spettatore e che si guardano tra di loro.
In particolare emergono le “Sister”, che appartengono alla sua produzione recente e sono sculture femminili composte da numerosissime collane fatte a loro volta di centinaia di piccoli elementi in argilla. Ho trovato molto interessante la sua dichiarazione nell’intervista fatta in occasione della mostra che sono opere che richiedono di essere accudite. Potrebbe approfondire questo punto? Che tipo di rapporto la lega a loro e come mai ha deciso di identificarle come sorelle e non, per esempio, come madri?
Sono sorelle, come le sorelle di certe favole che possono essere tante. È la loro molteplicità che le rende sorelle e non madri. Sorelle tra di loro e forse anche nostre. Fanno riferimento ad una femminilità arcaica ma sempre attuale, ambigua, attraente e respingente allo stesso tempo, mutevole. Sono figure che stanno un po’ nell’ombra, che ci accompagnano, che abitano il mondo appena dietro le nostre spalle. Il loro corpo è composto da migliaia di piccoli pezzettini di terracotta, modellati a mano e infilati in lunghe collane. Le Sisters sono dedite al cambiamento: ad ogni installazione il loro corpo si ricompone in maniera un po’ diversa, hanno apparati vegetali che ogni tanto devono essere cambiati e in alcuni casi sono fatte anche di fuoco!
In un suo scritto sulla scultura, lei afferma “Vorrei scolpire la pietra così come i passi consumano una soglia”. L’ho trovata un’immagine molto poetica e rappresentativa della sua pratica. Una volta sono stata ad una sua mostra [“What your poison is”, Almanc, 2022] in cui si poteva mangiare in piatti da lei realizzati. Che cos’è per lei l’oggetto artistico, la scultura che produce?
Amo la scultura perché appartiene al nostro stesso mondo; a differenza della pittura o della fotografia, si mescola tra gli oggetti che ci circondano. Amo la scultura votiva, gli oggetti rituali, le ciotole di ceramica e tutto ciò che si colloca a cavallo tra questi due regni. Quando modello un vaso mi domando ogni volta se sto facendo semplicemente un vaso oppure una scultura in forma di vaso. I Piatti esposti ad Almanac e anche in mostra all’Hangar vivono nello spazio della mostra come sculture, vengono attivati come piatti veri e propri durante delle cene/simposio e poi “docilmente” ritornano ad essere opere!
Vorrei chiederle qual è il ruolo che intercorre, nella sua arte, tra la parola scritta e l’opera. Per quanto nei suoi lavori scultorei non emergano mai parole, sul suo sito è possibile leggere una notevole raccolta di testi. Questi testi, che sembrano quasi appunti di un diario, hanno una natura eterogenea, spaziano da riflessioni sulla scultura in generale a riflessioni sull’opera di altre artiste, a racconti personali. Che ruolo ha la scrittura nel suo processo creativo?
La scrittura per me è un binario parallelo che accompagna il processo artistico. Sono riflessioni, appunti, spesso organizzati come veri e propri collages. Solitamente arriva a posteriori: qualcosa di già accaduto – nell’esperienza del processo artistico o della vita quotidiana – e che sento di voler fermare con le parole, forse per chiarirlo anche a me stessa. La mia scrittura non si articola secondo un discorso, non conclude, lavora per giustapposizioni
La sua arte è rivolta al femminile, si inserisce in una tradizione artistica che vede le donne come protagoniste (la ceramica era uno dei pochi materiali concessi alle donne in passato perché vista come una forma di arte minore) e si avvale di una idea collaborativa di lavoro (anche questo storicamente proprio della pratica femminile). Mi verrebbe da dire anche che la sua arte è femminista, ma mi sembra che questo aspetto non sia da lei mai dichiarato. Vorrei dunque chiederle esplicitamente se si pensa come una artista femminista e quali rivendicazioni politiche entrano a far parte della sua arte.
La dimensione femminista emerge inevitabilmente, non penso sia necessario apporre un’etichetta. In quanto donna e in quanto artista, sono grata a tutte quelle donne che mi hanno preceduto e che hanno dato vita ad una genealogia. Penso subito a Carla Lonzi e alle filosofe del gruppo Diotima, ma potrei citare in un elenco infinito tutte quelle donne, artiste, scrittrici, poetesse che ho sentito come sorelle maggiori, ma anche le amiche che fanno parte della mia vita, e che spesso collaborano con me.
La questione delle rivendicazioni è molto complessa. Posso dire che in questo momento mi interessa particolarmente rintracciare e mettere a fuoco una Storia alternativa, diversa da quella ufficiale narrata per lo più dagli uomini, una Storia basata, parafrasando Lonzi, su tracce deperibili, fatta di epifanie, di apparizioni, di momenti condivisi attraverso lo stare insieme. Si tratta di affinare lo sguardo e il sentire.
L’intervista è stata prodotta in collaborazione con l’art curator Elena Bray.
Elena Bray (Torino, 1994) è una curatrice indipendente di base a Milano. Si è laureata in Filosofia Magistrale all’Università degli Studi di Torino con una tesi in Estetica del Brutto e ha successivamente conseguito un master in Management dei Beni culturali alla 24Ore Business School di Roma. Da tre anni sviluppa progetti espositivi ed editoriali con artisti in spazi di ricerca, tra cui la mostra di Rebecca Moccia da CRIPTA747 (Torino, 2024), di Giuseppe Abate a Manifattura Tabacchi (Firenze, 2023), di Alice Faloretti da Mucho Mas! Artist-run-space (Torino, 2022), e la collettiva finale del ciclo di residenza di Via-Farini-in-Residence (Milano, 2022).