di Rita Cugola
I primi comitati femminili sorsero, negli Usa di metà Ottocento, sulla scia della militanza non violenta contro lo sfruttamento degli africani esercitato dai ricchi latifondisti locali.
Come gli schiavi, le donne si ritrovavano infatti prive di diritti, condannate all’invisibilità sociale e politica: i valori di uguaglianza e libertà evocati dalla Costituzione erano chiaramente stati traditi.
Invitato a Waterloo dall’amica comune Jane Clothier Hunt, un gruppo di signore bianche del ceto medio, ovvero Lucretia Mott, sua sorella Martha Coffin Wright, Mary Ann McClintock (fondatrice, insieme al marito Thomas, dell’organizzazione antischiavista Western New York Anti-Slavery Society) ed Elizabeth Cady Stanton (moglie del riformatore repubblicano Henry B.) cominciò quindi a delineare una strategia di lotta all’egemonia maschile, di cui tutte erano testimoni e vittime. (Cady e Mott ricordavano ancora l’umiliazione subita a Londra nel 1840, quando gli organizzatori della World Anti-Slavery Convention avevano vietato loro di partecipare ai lavori, dirottandole verso una sezione nascosta della sala. Per tutta risposta, le due si erano precipitate sul palco esortando la platea a riflettere anche sulla questione femminile).
Era davvero assurdo che non potendo studiare o dedicarsi ad attività non strettamente domestiche, le ragazze dovessero rassegnarsi ad attendere il momento in cui il matrimonio (talvolta indotto) le avrebbe sottratte all’autorità paterna e affidate al controllo esclusivo di un marito (sul piano legale la donna adulta continuava a essere equiparata a una minorenne da tutelare).
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Le severe norme giuridiche alla base dell’istituzione matrimoniale non ammettevano compromessi: l’obbligo di assumere l’identità del coniuge (sacrificando la propria) non garantiva a una neo sposa il tanto sospirato esercizio di qualche banale diritto. Implicava invece una serie impressionante di restrizioni, tra cui il divieto di possedere beni personali, stipulare contratti, redigere un testamento, firmare documenti, intraprendere iniziative autonome (anche irrilevanti) o citare in giudizio qualcuno.
Mentre da perfetta padrona di casa Clothier Hunt si limitava a servire il tè senza interferire nella conversazione, Cady Stanton elaborò mentalmente una piattaforma programmatica.
A differenza delle altre, lei non era quacchera: ma aveva comunque sviluppato una grande sensibilità alle miserie degli oppressi.
(Derivante dal puritanesimo, la congregazione cristiana dei quaccheri, o Società degli Amici, risaliva XVII secolo. Oltre che per l’ attestazione del sacerdozio di tutti i fedeli e il forte spirito comunitario, si distingueva per l’incomparabile impegno in campo sociale, ndr).
Armata di carta, penna e calamaio Cady Stanton scrisse dunque quella che i posteri avrebbero definito la pietra angolare del femminismo internazionale: la Declaration of Sentiments, ispirata alla Dichiarazione di Indipendenza con cui, il 4 luglio 1776, la Commissione dei Cinque (composta da Thomas Jefferson, John Quincy Adams, Benjamin Franklin, Roger Sherman e Robert R. Livingston, ndr) sancì la nascita degli Stati Uniti d’America.
Se con incontri periodici, risoluzioni e petizioni i membri dei movimenti abolizionisti (favorevoli all’abrogazione della schiavitù) si sforzavano di dimostrare quanto un cambiamento radicale di mentalità fosse indispensabile affinché una riforma potesse funzionare, Cady Stanton preferì concentrarsi sulla dimensione politica delle lotte emancipatorie, insistendo sull’importanza del voto femminile.
Abigail Adams (consorte del politico di cui sopra), lo aveva saggiamente intuito con quasi un secolo di anticipo: “(…) Se le signore non riceveranno particolare cura e attenzione, fomenteremo una ribellione e non ci riterremo vincolate da alcuna legge nella quale non abbiamo avuto voce o rappresentanza”.
D’altro canto, lo slogan che tra il 1765 e il 1783 aveva scandito la ribellione americana al colonialismo britannico, no taxation without representation (nessuna tassa senza una rappresentanza, ndr) pareva ancora in grado di trasmettere energia:
“(…) Siamo riuniti per protestare contro una forma di governo che pretende di esistere senza il consenso dei governati, per dichiarare il nostro diritto a essere libere come l’uomo è libero, a essere rappresentate in un governo che ci tassa per sostenersi (…)”, si legge nella premessa del manifesto.
Essendo poi evidente che ”(…) tutti gli uomini e le donne sono stati creati uguali e dotati dal loro Creatore di determinati diritti inalienabili (…), i soprusi del sesso opposto assumevano una rilevanza ancora maggiore: “(…) La storia dell’umanità è una storia di oltraggi e abusi perpetrati dall’uomo sulla donna (…). Lui ha stabilito un codice morale diverso per gli uomini e per le donne (…)”.
Soprattutto (ed è forsel’aspetto peggiore), “(…) Si è adoperato in ogni modo possibile per distruggere la fiducia della donna nelle proprie forze, per ridurne il rispetto di se stessa e per assoggettarla a una vita di dipendenza e avvilimento (…)”.
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Pertanto, “(…) Di fronte alla completa perdita dei diritti civili di metà del popolo di questo paese, di fronte alla sua degradazione sociale e religiosa, di fronte alle ingiuste leggi sopra menzionate, e poiché le donne si sentono offese, oppresse e defraudate dei loro più sacri diritti, insistiamo affinché siano immediatamente ammesse a godere di tutti i diritti e privilegi spettanti loro in quanto cittadine degli Stati Uniti (…)”.
Sottoscritto da 68 donne e 32 uomini, strutturalmente simile alla Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne di Olympe de Gougesapparsaa Parigi nel 179, il documento venne varato in occasione della Women Rights Convention indetta il 19-20 luglio 1848 nella Wesleyan Chapel di Seneca Falls, non lontano da New York.
Particolarmente apprezzato l’intervento dell’ex schiavo Frederick Douglass, che dalle pagine di North Star, il giornale abolizionista da lui fondato, non aveva mai smesso di sollecitare sia la concessione dei diritti politici e civili agli afroamericani, sia il suffragio universale.
Si trattò di un evento inedito di enorme impatto e ampia risonanza, ma anche fonte di perplessità e polemiche. Se alcuni insistevano a minimizzarne la portata, altri individuavano nelle rivendicazioni femminili una minaccia potenziale alla causa antischiavista.
A suscitare davvero scandalo furono invece Cady Stanton e la cugina Elizabeth Smith Miller, che avendo sfidato la folla indossando pantaloni di foggia maschile (i cosiddetti Bloomers, così chiamati in onore dall’editrice Amelia Bloomer che li aveva pubblicizzati nel suo periodico per donne The Lily, ndr) si ritrovarono sommerse da fischi e insulti, ma non se ne curarono affatto, poiché l’affluenza dei simpatizzanti si era rivelata superiore alle previsioni: circa 300 persone di età, genere, provenienza, estrazione sociale e razza differenti, unite da un medesimo desiderio di giustizia.
Molti di loro si sarebbero ritrovati due settimane dopo alla Convenzione di Rochester (New York) sullo stesso tema. Altri avrebbero presenziato a qualcuno degli appuntamenti di rilevanza locale e statale previsti in Ohio, Pennsylvania e New York, in vista della prima assemblea nazionale di Worcester (Massachusetts) del 1850.
Superando gli intoppi burocratici, nel 1869 lo Stato del Wyoming concesse alle donne il voto amministrativo; a dodici mesi di distanza, quello dello Utah lo imitò.
Successivamente, Susan B. Anthony (una veterana dell’attivismo che con Cady Stanton aveva fondato, nel 1866, l’American Rights Association) fu arrestata e multata aver tentato di votare alle elezioni presidenziali del 1872, ma rifiutò ostinatamente di pagare i 100 dollari richiesti dal giudice (oltre alle spese processuali).
Il clima rimase rovente fino al 1920, anno in cui il Congresso ratificò il XIX Emendamento costituzionale (in base al quale “Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o disconosciuto dagli Stati Uniti o da uno degli Stati a motivo del sesso”), consentendo alle donne statunitensi di accedere finalmente ai seggi elettorali.