Torna nelle sale in tutta Italia in versione restaurata in 4k dalla Minerva Pictures e Rarovideo Channel, in collaborazione con Cat People, L’odio di Mathieu Kassovitz, il cult urbano vincitore della Palma d’oro- Miglior Regia al Festival di Cannes nel 1995. con Vincent Cassel, Hubert Kounde e Saïd Taghmaoui,
Il film racconta per la prima volta il suburbano delle grandi città, concentrandosi su ventiquattr’ore della vita dei tre protagonisti, dai caratteri apparentemente inconciliabili, che devono reagire alle sfide di un contesto sociale complesso e asfissiante, ma ancora attuale a trent’anni di distanza.
Fin da subito infatti, L’odio si è affermato come un vero e proprio cult intergenerazionale, diventando uno dei titoli fondamentali dell’immaginario hip hop contemporaneo, e anche italiano.
Ventiquattr’ore nella vita di Vinz (Vincent Cassel), Hubert (Hubert Koundé) e Saïd (Saïd Taghmaoui), tre amici della banlieue parigina all’indomani degli scontri tra forze dell’ordine e civili dopo i quali un ragazzo del quartiere, Abdel, si ritrova in fin di vita a causa dei soprusi violenti della polizia.
I tre, carichi di rabbia e con una pistola tra le mani, meditano su come avere giustizia.
“L’odio nasce con la morte di Makomè, vittima di un pestaggio in un commissariato parigino. Da allora mi sono chiesto come si sarebbe potuti entrare nel circolo vizioso dell’odio: i ragazzi che insultano gli sbirri che insultano i ragazzi che insultano gli sbirri. Tutto finisce sempre male, si trasforma in scontro. Il fatto è che è la polizia ad avere le armi addosso ed è solo la polizia a poter decidere quanto alzare l’asticella del conflitto. E’ un film contro i poliziotti e volevo che fosse inteso come tale”, ha raccontato Mathieu Kassovitz, spiegando come era nata l’idea del film.
Tre protagonisti dai caratteri opposti, tre modi di affrontare la vita, tre modi di essere arrabbiati e una sempre personalissima idea di rivalsa.
L’ira di Vinz, la riflessività di Hubert e la buffoneria di Saïd ci guidano in un microcosmo senza eroi e senza miti, in cui convivono il quotidiano della periferia (in lingua originale quasi tutto il film è in slang) e una rabbia pronta ad esplodere da un momento all’altro, divisa tra smarrimento e vendetta, in un racconto continuamente oscillante tra obiettività e simbolismo.
Tra personalissimi incontri surreali, percorrendo i contorni sfocati della giustizia ed esplorando le contraddizioni dei suoi protagonisti, L’odio è diventato il punto di riferimento dell’immaginario metropolitano fin dalla sua uscita, un instant classic per tematiche e stile.
Mathieu Kassovitz ha infatti catturato l’essenza degli squilibri sociali trasformandola in un racconto continuamente oscillante tra obiettività e simbolismo.
Percorrendo i contorni sfocati della giustizia ed esplorando le contraddizioni dei suoi protagonisti, Mathieu Kassovitz ha infatti catturato l’essenza degli squilibri sociali, trasformandola e andando a creare un film emblematico e universale, allo stesso tempo crudo e cool, sporco e ricercato.
Rivedere L’odio oggi equivale a ritrovarsi davanti a un manifesto lucido e senza tempo che immortala questioni che dopo quasi trent’anni appaiono ancora più attuali.
Il mantra «Fino a qui tutto bene» che apre e chiude il film è ancora oggi una preghiera laica che racchiude insieme la speranza e la disillusione di ormai più di una generazione.
Un cult cinematografico passato di generazione in generazione, un piccolo capolavoro della cultura street, emblematico e universale per il modo di Kassovitz di raccontare in modo crudo, potente, schietto, autentico le strade della banlieue, la complessità sociale e il filo teso quotidiano.
Una vicenda che ancora oggi è cronaca quasi quotidiana, raccontata in modo accattivante da diventare punto di riferimento della cultura urban da lì a venire. Percorrendo i contorni sfocati della giustizia ed esplorando le contraddizioni dei suoi protagonisti, il film è diventato un instant classic per tematiche e stile.
“L’odio” ha dichiarato Kassovitz – parla incredibilmente dell’oggi, di quello che siamo, di come stiamo vivendo e dove stiamo vivendo.
La città. La città divisa in zone con il suo hic sunt leones. Lo sconfinamento, la terra dell’altro, lo straniero, il povero, il pericoloso, l’altro.
Nella città ci sono muri invisibili che separano. Il classismo si riproduce sulla base del razzismo.
L’odio parla di chi fa parte di un quartiere difficile. Il bianco e nero del film è una divisione netta. Una metafora della divisione. All’interno dello Stato. Da una parte chi mantiene lo status quo e dall’altra quelli che dovrebbero aver diritto di farne parte ma vengono allontanati. Quelli che stanno fuori dallo schema dominante. Quelli il cui destino è legato a doppia mandata alla propria provenienza.
Ritrovarsi a vivere, anzi relegati a vivere, in una periferia, lontana, lontana dalla città, tanto da avere una propria lingua, un proprio codice. E la rabbia per queste condizioni, in cui si viene forzati a vivere, esplode e scoppia la guerra. Contro il rappresentante delle istituzioni che ti trovi davanti.
La polizia. L’odio che dà il titolo al film è infatti il disprezzo per questo stato esistenziale che accomuna gli stranieri francesi, lo stesso che anima gli afroamericani nella loro recente lotta Black Lives Matter, e che si sublima nello scontro diretto con le forze dell’ordine.”
Il restauro de L’odio è solo la prima delle tante iniziative che accompagneranno questo importante traguardo.
L’Odio è un film che contiene il futuro.
Adriana Moltedo
Esperta di cinematografia con studi al CSC Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Ceramista, Giornalista, Curatrice editoriale, esperta di Comunicazione politico-istituzionale per le Pari Opportunità. Scout.