Regia di Stéphanie Di Giusto
con Nadia Tereszkiewicz, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Guillaume Gouix.
In sala dal 30 maggio
Tre stelle e mezzo
La storia vera si snoda fra Ottocento e Novecento. Clementine Clattaux nasce il 5 marzo 1865 a Chamousey, in Lorena, in una famiglia di agricoltori. Ragazza intelligente, vigorosa, attiva ha però qualcosa che la distingue dalle altre: è affetta da una forma grave di quello che oggi definiamo irsutismo e che ancora non è semplice da guarire. Ha il corpo ricoperto da una fitta peluria che non risparmia il volto ed è costretta a radersi ogni giorno. Eppure a 20 anni sposa Paul Delait, un fornaio di un paese vicino, Thaon- les -Vosges, dove la coppia si stabilisce. Clementine non può avere figli, ma nel 1919 riesce ad adottare una bambina, qualche anno dopo la famiglia si trasferisce a Plombières, nella speranza che le acque termali giovino alle ferite di guerra di Paul. Lì, Clementine apre un negozio di abbigliamento intimo ma, nel 1928, dopo la morte del marito, torna a Thaon e inaugura un caffè.
Solo in tarda età, a differenza di quello che era abituale all’epoca per tutti i “freaks”, accetta di esibirsi come fenomeno da circo e viaggia da Londra a Parigi, da Vichy a Belfast, sempre accompagnata dalla figlia Fernande. Detta con piglio orgoglioso e senza risvolti patetici le sue memorie a un giornalista, Pol Ramber, che scriveva per un giornale locale. Il libro però va perduto e viene scoperto per caso solo nel 2005 da un commerciante di oggetti usati, in mezzo a un lotto. In compenso le foto di questa donna massiccia che esibiva senza complessi la sua barba giravano fin dai primi anni del Novecento ed erano molto diffuse.
La regista Stéphanie di Giusto incuriosita e affascinata da questa vicenda così particolare ha deciso di raccontarla, a modo suo, costruendo un ritratto psicologico di una donna che in tempi certo non generosi verso tutto quello che trasgrediva la normalità è riuscita invece a vivere una vita normale.
Inventa così Rosalie, femminile, dolce, volitiva, con un padre protettivo che tiene nascosta l’anomalia della figlia e versa una buona dote a Abel, uomo in difficoltà economiche purché sposi la ragazza. Ma che cosa può giustificare quel denaro, quale difetto può nascondere una donna così bella e dolce? Il futuro marito immagina quello che ogni uomo a quei tempi avrebbe pensato e cioè che il problema sia la verginità perduta, Solo alla scoperta della verità, inizia il film.
Una storia delicata, con attori molto in parte che, proprio come nella vicenda narrata hanno familiarizzato gradualmente uno con l’altro visto che le scene (condizione per niente frequente) sono state girate in ordine cronologico e la progressione delle difficoltà e la loro ricomposizione lo spettatore la percepisce sulla pelle.
La svolta avviene quando Rosalie, per aiutare il marito nei suoi problemi economici, esce allo scoperto nel piccolo villaggio e si lascia crescere la barba fra lo stupore dei paesani. La ricchezza delle reazioni è anche la ricchezza del film, ci sono la curiosità, l’attrazione morbosa, il rifiuto moralistico, l’accettazione affettuosa e persino un torbido erotismo. Rosalie rivendica il suo stato, vuole farsi accettare per come è, vuole che gli altri capiscano che la sua persona va al di là dell’anomalia di una barba. La regista avrebbe potuto sfruttare la storia infilandosi nel tunnel delle ossessioni contemporanee del politicamente corretto o del gender e invece ha intrapreso il cammino della favola, di un racconto sentimentale con risvolti di profondità romantica, che si inseriscono molto bene nel villaggio intatto sfondo delle riprese. L’avvicinamento lento del marito che a poco a poco capisce e ama Rosalie è garbo e fragili slittamenti, tutto di cuore e mostra la sensibilità dei “cuori semplici”.
Partendo da una storia misteriosa di cui poco si conosce, guardando e riguardando le tante immagini di Clementine fiera e del suo barbone, Stéphanie ha così realizzato un film insolito, dove niente è scontato e ricco di mille sfumature.