La moglie di Davide: variazioni sul tema (2Sam 6, 12b-22)
Se l’ho disprezzato, l’ho fatto in cuor mio.
Sì, certo, voi del XXI secolo, che vi dite esperti di cose ebraiche, replicate che il cuore è il pensiero, che il cuore è il cuore della meditazione, la sincerità più radicata. Vi faccio i miei complimenti. Voi credete di capire. E avete tramandato racconti su di me, su Mical, la donna dal cuore duro, quella che si scandalizza perché Davide, il re suo marito, ballonzola – così così – mezzo nudo, tutto svirgolato, come un selvaggio, davanti al Santo dei Santi.
Da me, ci si aspettava forse qualcosa di diverso? In fondo, sono la figlia del ripudio. Mio padre Saul era stato respinto dal cielo. E Davide, il mio Davide bello e svergognato, Messia di sostituzione, me lo ricordò in faccia, subito dopo quella danza senza onore. E rincarò la dose, promettendo che avrebbe fatto peggio: spogliarsi anche davanti alle serve!
Non che per lui contasse granché. Serve o regine, quando si trattava di donne Davide non andava troppo per il sottile. Se le voleva le prendeva, e quante ne ha prese!… Quando il suo discendente, il definitivo, «figlio di Davide» per eccellenza, un tal Gesù che voi nominate spesso ma comprendete assai poco – e vorreste fare la morale a me? –, quando Gesù parlava di generazione adultera e peccatrice, mi sa che aveva in mente tutte le nostre faccende. E quelle a seguire: l’umanità è tutta Davide, alla fine.
Anche me mi aveva presa così, in base a uno scambio. Però la notte mi amava di passione. Davide sapeva sciogliere canti dolcissimi e compiere sacrifici crudeli. Con animo pietoso distribuiva pane e carne e poi esaltava il Dio delle battaglie. Faceva il sacerdote con l’efod… Se ci penso, all’efod. Sulle pudenda! S’era visto mai? Era così strano e contraddittorio Davide, per niente un santo. E io l’amavo, amavo il suo non essere, le sue imperfezioni, persino il suo adulterio.
Ma vederlo lì, in balia di tutti e tutte, con quella parte che mi spettava di diritto; con quella vergogna che io sola avrei dovuto svelare, con quella povertà rimpicciolente, quasi mendìca, mi fece male. E lo disprezzai. In cuor mio, però. Non nel profondo, come dite voi. Ma nel segreto della mia pena.
E quando gli rivolsi quelle rampogne, oh con parole tanto inadeguate!, volevo di nuovo piacergli. Attirare la sua attenzione. Avete sentenziato che sono stata superficiale, che per me contava l’apparenza e l’apparato. E un poco anche la razza o il rango o entrambi. La vergogna, legata alla vista, versus la colpa, legata all’udito. «Ascolta, Israele» mica «Guarda, Israele», perché non sempre tutto è come appare.
Per me, però, non era questo. Piuttosto, mettetevi nei miei panni. O meglio, già che siamo in tema, levate i suoi…
Altro che «il re è nudo». Qui siamo ben oltre. Ciò che sentii in cuor mio, fu la solitudine. Glielo esplicitai, malaccortamente, rozzamente. Ed egli fu crudele, e io capii di avere un avversario invincibile. Si svergognasse pure davanti alle serve, lui diceva di farlo per D-o, colui che l’aveva estratto nudo dal seno di sua madre, ché in principio non esistevano vestiti, e non esisteva la vergogna, e tutto era buono, immacolato, fresco, pulito…
Ecco, vederlo così innocente, così fanciullato dopo tanti crimini, e prima di compierne di peggiori, novello Adamo così stupendamente ri-creato, in quegli attimi brevi, indimenticabili come miracoli, mi fece male. Quel prodigio non era per me. Non mi apparteneva. Era qualcosa che poteva dargli solo l’Innominabile, lui l’aveva scelto, e io ne provavo gelosia.
«Disprezzai» Davide, per poter averlo ancora al mio fianco. Non fosse stato il Messia, sarebbe ancora mio marito.
© Daniela Tuscano
(immagine generata con AI)