Ça va, Alain, ça va. Ma sarebbe meglio dire «Ça part», perché tu usasti proprio questo verbo, partir – partire – durante il discorso di commiato per il premio alla carriera. «Il difficile è andarsene, perché io voglio andarmene…», questa la traduzione italiana, grammaticalmente correttissima.
Ma con te, che corretto non eri, si poteva pure fare un’eccezione e mantenere quel «partire» tanto più fisico quanto più misterico, anche spaventoso, giacché il distacco è violento, un attimo di puro terrore che nessuno può poi descrivere. E perché vivere è vivere, pur se non ti ci ritrovi più, benché si decada (ma in lacrime e imbolsito ti ho visto bello, splendente come negli anni più radiosi).
Avevi fatto il tuo tempo e lo sapevi. Avevi il senso del tempo. Il limite del troppo, troppi film, troppe donne, probabilmente troppi figli e pazienza se adesso dovremo sorbirci la consueta, stucchevole litania a proposito di eredità eutanasia e cani morti.
Alain Delon, nome da campanello, nome da giglio di Francia, da quadro fiammingo: nazionale, o nazionalista, saresti stato perfetto per il pittore Jean Clouet come lo eri nei film di cappa e spada. Naturalmente mi divertisti grandiosamente in «Borsalino» con l’amico-rivale Belmondo: per «Rocco e i suoi fratelli» ero troppo piccola – anche per questo, la tua indubitabile bellezza mi pareva lontana, in fondo eri coetaneo di mio padre -, per «Il gattopardo» non sono mai stata pronta.
Ma per «Un amore di Swann» avevo l’età giusta, ero – e resto – proustiana e il tuo Barone di Charlus lo ricordo benissimo, interpretazione magistrale in una pellicola azzardata, o spericolata. Il tuo Visconti ci aveva rinunciato, ma Schlöndorff ci provò e fu una scommessa persa.
Non da te però, che non solo somigliavi fisicamente a Charlus-Montesquiou ma gli conferisti la melancolia dell’uomo annegato nei suoi fumi sessuali, oppiaceo e modernissimo, tu che definisti l’omosessualità «contro natura», e forse proprio per quello, perché Proust avrebbe almeno in parte concordato, perché con quella frase respingente la vita la complicavi, come quando parlavi di ra*za, e potevi farlo, mentre oggi, noi, che alle ra*ze e alle contrarietà naturali giustamente non crediamo, siamo meno liberi di te, e per evitare censure dobbiamo ricorrere a improbabili caratteri grafici.
Eri un uomo plastico e diretto, ma attenzione: rimanevi un attore, cioè, alla greca, un «ipocrita»; voglio partire e, aggiungesti, è difficile. Contraddizione. Come mettere insieme Zorro e Louis Malle, Jean Gabin e l’«Histoire d’un flic» (a proposito, «flic» si può ancora dire?). Non capivi più questo mondo perché da capire non resta più niente, e peggio per noi. Non ne conoscevi altri, bel guaio.
Ma è arrivata quella partenza, lenta ma lucida, sbruffona e intemerata come il tuo pianto, paurosa e irrinunciabile, ed è giusto così.