Chiara Schmidt, ventisettenne, nata e cresciuta a Milano, dopo aver conseguito brillantemente il diploma al liceo Volta , ha deciso di abbandonare il percorso di studi scientifici e di proseguire invece i suoi interessi musicali continuando prima con il Conservatorio di Milano, poi a Vienna e infine al Mozarteum di Salisburgo, dove si è fermata. Non ha mai abbandonando però la sua passione di scalare le vette dei monti.
Salisbugo è molto diversa dalla città in cui sei nata e vissuta…
Da brava milanese, arrivando a Salisburgo avevo il terrore che fosse troppo piccola, troppo provinciale…e invece vi ho trovato tutto quello che potevo chiedere:: un ambiente musicale internazionale, stimolante e al contempo una città piccola, a misura d’uomo, capace di portarti nel giro di mezz’ora in montagna, in falesia, a fare una via o una gita di sci alpinismo.
La musica ed il pianoforte non li hai mai abbandonati. Una scelta di vita la tua. Cosa ha portato la tua esistenza a perseguire questa strada molto difficile? Quanti anni hai studiato?
La musica nella mia vita vi è entrata un po’ per caso, quando in seconda elementare mi feci regalare una tastiera elettrica (più per gioco che per altro). In famiglia non ci sono musicisti, per cui con molta calma ma poca pressione iniziai a prendere lezioni private con Natalia Gashi, un’insegnante di pianoforte, amica di famiglia.
Quasi dal nulla, in quinta elementare arrivò la proposta da parte di una mia maestra di fare l’esame di ammissione in Conservatorio. Io un conservatorio non sapevo nemmeno cosa fosse, ma mi sembrava una bella sfida…….i miei genitori invece erano in parte titubanti, poiché temevano che questo passo mi potesse strappar via troppo presto dell’infanzia e mi inserisse in un ambiente pieno di pressione e aspettative. Alla fine l’esame lo feci e superai ed ebbi la fortuna di entrare nella classe giusta con l’insegnate giusta.
Inizia quindi il mio percorso di studi con la Prof. Anna Abbate, che insegnava con passione e competenza, sempre comprensiva anche se esigente e capì che nella mia vita oltre alla musica c’erano altre cose alle quali non avrei mai rinunciato veramente,. Il pianoforte non doveva diventa un obbligo ma una fantastica possibilità di espressione (nonostante lo stress crescente di concerti e concorsi che si facevano sempre più frequenti). Questo atteggiamento mi accompagnerà negli anni e nei miei studi, prima a Vienna, poi a Salisburgo ed oggi è forse una delle cose di cui vado più fiera. Di persone più brave, più precise, con più repertorio e che hanno studiato di più, ce ne saranno sempre ma è necessario preservare la leggerezza e l’ autenticità altrettanto importanti sul palco Ed io cerco quindi di lavorare su quelle, vivendo una vita piena, anche quando lavoro sulla parte pianistica.
Trasferirsi in Austria è stato un bisogno professionale, ma forse soprattutto umano. Il primo anno dopo la maturità lo trascorsi a Milano, sempre scritta al Conservatorio. Volevo sperimentare l’ebrezza di avere le giornate intere per studiare e dedicarmi a quella che avevo scelto sarebbe stata la mia strada. Cercai di lanciarmi, cercare concerti, fare concorsi, allargare il repertorio, eppure in fondo non ero soddisfatta.
All’atto pratico passavo la maggior parte della giornata da sola sul mio pianoforte, intorno a questo girava tutta la mia intera esistenza ed una nota uscita meglio o peggio poteva cambiare la mia giornata. Volevo davvero questo per tutta la mia esistemza? Iniziai a mettere in discussione la mia scelta giungendo alla conclusione che la musica doveva continuare a far parte della mia vita, ma che avevo bisogno di variare, spaziare e soprattutto lavorare con le persone. Così arrivò la decisione di iniziare la triennale in musicologia a Vienna, per aprire gli orizzonti, fisici e mentali, per cercare una dimensione nel mondo della musica che facesse per me.
Negli anni, tra alti e bassi, dubbi e successi, sempre supportata dai miei genitori, questa considerazione ondò pian piano definendosi e approdai allora alla Musica da Camera. Suonare insieme ad altri è più dinamico e variopinto, c’è un momento di studio, ma poi ci sono anche le prove insieme agli altri, il condividere il palco, nel bene o nel male, i pranzi e i pomeriggi passati ad organizzare concerti e concorsi insieme. Per questo, finita la triennale di musicologia a Vienna, iniziai un Master di Pianoforte e Musica da Camera al Mozarteum di Salisburgo.
Inserirmi a Salisburgo mi è risultato facile fin da subito, è stato come entrare in una bolla dove tutti amano fare le cose che piacciono anche a te.. Salisburgo è piena di musicisti e, naturalmente, anche di alpinisti! La decisione dopo la laurea di rimanere è così stata naturale, come lo è stato avere una cattedra presso il Musikum, la scuola civica di Salisburgo, dove attualmente insegno. L’Italia mi manca, certamente, ma non riesco ad immaginare davvero uno scenario in cui io possa tornare indietro. Mi sembrerebbe un passo indietro, buttare via tutto ciò che ho costruito negli ultimi 8 anni.
Ti manca andare in montagna e quando hai cominciato? Con i tuoi genitori?
La montagna c’è sempre stata, e l’amore per questa viene dalla famiglia. I miei genitori all’inizio della loro storia, per conoscersi meglio, si sono romanticamente iscritti insieme alla scuola di sci alpinismo “Righini” del CAI. Mio padre ancora oggi è un grande camminatore e si è specializzato in lunghe traversate, come quella da Muggia (Trieste) a Ventimiglia o quella dei Pirenei (profilo IG emanuele.cammina). Lunghe camminate, le prime gite di sci alpinismo, i primi facili 4000 arrivano quindi in famiglia.
Da piccola, attorno agli 8 anni mi iscrissi ad un corso di arrampicata in palestra, ricordo che mi divertii molto e che feci anche piccola gara di boulder. A 10 anni però vinse la musica: vengo ammessa al Conservatorio e così, le mani vanno protette. La montagna continua ad accompagnarmi nonostante la carriera pianistica, faccio corsi di sci alpinismo, ma continuo ad impormi il limite di non dover mai seriamente caricare troppo le mani per scalare.
Quando è scattato quel qualcosa in più?
Durante il covid ovviamente! Tutti i concerti saltati, metà delle lezioni universitarie fatte da remoto, l’altra metà cancellate, perché continuare a studiare pianoforte 6 ore al giorno? E così, la montagna in questo periodo si riprende i suoi spazi nella mia vita, per non lasciarli mai più. Inizio a conoscere un gruppo di amici e alpinisti a Salisburgo e ad avere obiettivi sempre più ambiziosi. L’arrampicata diventa imprescindibile. È un periodo di grande riflessione anche su chi sono, dove voglio andare e cosa voglio rappresentare: mi diventa presto chiaro che la montagna non dovrà più sacrificarsi a scapito del pianoforte. Le due cose dovranno convivere, costi quel che costi.
Cos’hanno in comune musica e scalata?
Sono due facce della stessa medaglia. Entrambe hanno una forte componente fisica, reale, fatta di studio, fatica, lavoro e sudore, eppure sono totalmente e imprescindibilmente spirituali. La musica, così come la montagna, ci trasporta al di fuori di noi stessi e ci invita a guardare il mondo da fuori, da una nuova prospettiva. Quando sono sul palco mi sento viva come quando sono in parete e se un passaggio di arrampicata non mi riesce, lo studio e ristudio, esattamente come mi esercito al pianoforte. È questa sensazione inebriante di Flow, quando ogni movimento avviene nel modo e al momento giusto, rispettando quel delicato equilibrio che è meglio non rompere, in montagna così come sul palco. Hans Dülfer, leggendario alpinista bavarese che ha aperto decine di itinerari visionari sulle montagne del salisburghese (prima di morire prematuramente senza nemmeno raggiungere i 25 anni) fu a quanto pare anche un discreto pianista. Anche lui ha affermato di studiare l’arrampicata come un brano di pianoforte, e così io ho deciso di chiamare la prima via che ho chiodato sul Plombergstein “Dülfers Etüde” (lo studio di Dülfer, 7a+).
Uno dei lati più belli della scalata, è che raramente ha a che fare solamente con il puro movimento tecnico e fisico. Le pareti , hanno tanto da raccontare: e così l’arrampicata è per me anche un bellissimo modo per scoprire e conoscere nuovi luoghi. L’estate scorsa l’arrampicata mi ha portato in Madagascar, a Tsaranoro, che è stato forse uno dei miei viaggi più formativi di sempre.
Si potrebbero decantare per pagine e pagine le qualità infinite della roccia, lo stile della chiodatura, della scalata, gli avvicinamenti nella savana. Invece la cosa che mi ha colpito di più è come l’arrampicata abbia negli ultimi anni influenzato la vita di questa valle. Spesso lo sviluppo del turismo cresce troppo velocemente , e va a snaturare quello che erano l’ambiente e la vita delle persone. In questo caso sembra che l’arrampicata possa aver dato un impulso positivo alla comunità locale, che ha recentemente iniziato a produrre i suoi primi climber e chiodatori e la speranza è che piano piano vadano a sostituire sempre più i chiodatori europei e americani.
Suonare in alta montagna sarebbe un bel connubio anche se rischioso?
La classica domanda che è lì, sempre in agguato: “ma come fai con le mani?”. Per come la vedo io, ci sono due tipi di rischio in cui incorro scalando. Il primo è quello dell’infortunio: a quello si può stare attenti ma non lo si può eliminare. Quel rischio me lo accollo, anche perché non riuscirei ad immaginarmi una vita senza l’una o l’altra passione. Il rischio a cui tutti si riferiscono però è più un altro: “ma non ti rovini le mani”?. La preoccupazione è quella che le mani si facciano più forti, ma anche più rigide, meno veloci, flessibili e raffinate nei movimenti. Non ho mai trovato veramente una risposta scientifica e soddisfacente a questa domanda. La mia sensazione è che sia importante fare entrambe le cose, altrimenti sì, le mani si irrigidiscono. Visto che comunque, al netto del tempo che passo a fare l’una o l’altra cosa, vince ancora il pianoforte, la mia sensazione è di aver guadagnato in forza, senza aver perso sensibilmente però in agilità e precisione.
Ma una delle mie preoccupazioni più grandi è che queste due passioni che accompagnano e riempiono la mia vita siano estremamente egoiste, tutte incentrate attorno alla mia persona e fondamentalmente “inutili”. Da qui il tentativo da qualche anno a questa parte di inserire nei miei programmi sempre una nota politica, un messaggio, perché i miei concerti non siano puro intrattenimento uditivo ma possano diventare uno spunto e un momento di riflessione collettiva. Così quando il compositore americano Brian Field mi ha contattato un anno e mezzo fa per propormi di suonare i suoi brani, ha sfondato una porta aperta e io ho subito detto di sì. Field ha scritto un’opera per pianoforte chiamata “Three passions for our tortured planet”: si tratta di tre brani intitolati rispettivamente “Fire”, “Glaciers” e “Winds”, con i quali ha creato un movimento di pianisti da tutto il mondo che, includendo la sua opera nei loro programmi, contribuiscono a diffondere il suo messaggio.
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https://passionsforourtorturedplanet.org/
Senza saperlo, Brian mi ha fornito il brano perfetto per quello che da anni era stato un mio sogno: unire le mie passioni per dare vita ad un concerto in alta quota. Per tanti anni però mi era mancato l’ultimo tassello, una motivazione vera e convincente, che trascendesse la mia pura e semplice gioia di unire queste mie due passioni.
Perché il Dachstein per il tuo concerto in quota’
Il Dachstein è la montagna del salisburghese, che ospita una serie di piccoli ghiacciai che nei prossimi decenni saranno tra i primi a scomparire. L’idea era quella non solo di fare un concerto, ma di creare un film che potesse poi essere proiettato al cinema, per diffondere il più possibile il messaggio. Come palcoscenico abbiamo scelto il “Niederes Dirndl”, un torrione di fianco al Dachstein accessibile da tutti i suoi lati solo da vie di arrampicata.
La tastiera l’abbiamo tirata su con un sacco materiali da big wall lungo la via più dura della parete (“Nationalfeiertag”, X-), nella speranza che data la verticalità prendesse il minor numero di botte possibili (speranza rivelatasi più o meno vana). Oltre alla tastiera abbiamo portato su due casse, due microfoni, la batteria di una macchina, una chitarra e cavi vari. Qui è d’obbligo un ringraziamento a tutti i miei amici che hanno supportato e aiutato quest’idea un po’ strana e sono diventati parte del sogno. Non sarebbe stato possibile senza il loro aiuto!
Cosa ne verrà fuori?
Da un lato verrà fuori un “music video” dei tre brani di Field. Quest’estate li ho registrati in studio e sovrapporremo immagini, foto e video del concerto (anche riprese col drone) alla registrazione audio. Questo video sarà disponibile su youtube a partire da febbraio/marzo, l’audio anche su spotify. Più verso la primavera/estate uscirà invece un film che racconta di questa nostra avventura e che ci piacerebbe inviare a vari film festival di montagna (il film sarà in tedesco ma è nostra intenzione sottotitolarlo e diffonderlo anche in Italia). Sono molto emozionata di avere al mio fianco per questo film Jonathan Fäth, un giovane regista e videomaker di montagna bavarese, che ha già accompagnato grandi alpinisti e alpiniste per filmarli durante le loro salite (fra le altre ha accompagnato Jacopo Larcher e Babsi Zangerl in Pakistan, il film è poi uscito su ReelRock). Jonathan ha intenzione di ampliare quella che era la mia idea iniziale di documentare il nostro concerto in alta quota con un documentario più a tutto tondo su arte, musica e montagna. Stay tuned!
Come tutti i musicisti freelance, anche io sono sempre alla ricerca di nuovi contatti/location/istituzioni potenzialmente interessate al mio profilo artistico. Spero molto che questo film possa aiutarmi a mettermi sempre più in contatto con rifugi/pro loco locali/comunità alpine interessate a concerti outdoor, in montagna, a tema cambiamento climatico. Sento con questo di aver trovato una strada veramente mia e che vorrei percorrere fino alla fine.
Di seguito il link ad un video su youtube di una mia performance completa delle “Three passions for our tortured planet”, Vienna estate 2023:
Qui un altro link registrato live in un concerto suonato in Svezia, Brahms op. 118: