Per Valeria Dell’Era la poesia è un modo di sentir se stesse stessa e l’esistenza, seguito dal desiderio istintivo di tramutare tale sentire in parole. Un modo di pensare direttamente in scrittura.
Valeria Dell’Era vive e lavora a Bari. Si occupa di poesia, traduzione e didattica delle lingue straniere. È docente di lingua e letteratura francese e di russo. Nel 2012 pubblica la sua prima raccolta poetica È finito il miele nella coppa con cui vince il concorso letterario Città di Murex di Firenze. Prima e durante scrive racconti brevi, alcuni pubblicati in riviste e sul web. Nel 2023 pubblica la silloge Senza unico filo che
conduca per Eretica edizioni. Scrivere e viaggiare sono i verbi all’infinito che preferisce.
Da quando hai cominciato a poetare?
Fin da bambina. Il colpo di fulmine fu in quinta elementare quando la maestra ci fece leggere alcune liriche di Ungaretti. Fui stupefatta dalla capacità che il poeta aveva avuto in pochi versi di esprimere mirabilmente cose così intime, ma universali come il dolore, la solitudine, l’esperienza straziante di una guerra. Confessai ad alta voce che la lettura di Cuore di De Amicis era “una vera barba”. La mia splendida maestra mi guardò e mi sorrise.
La prima poesia la scrissi l’anno dopo, prima media, mi incantai a guardare la professoressa di religione, una suora, ma non la ascoltavo, fissavo il suo abito nero come le piume di un corvo, nella mente lo trasformai in un abito bianco da sposa come le piume di una colomba e “partì” la lirica che mi rimase appesa e già composta nella mente fino a sera quando mi alzai dal letto, con l’urgenza di doverla scrivere su un foglietto di carta. Purtroppo l’ho perso, sennò lo avrei incorniciato, come fece Paperon de’ Paperoni col suo primo centesimo. Da allora il cassetto si riempì di “pizzini” poetici.
Cosa vuol dire per te la poesia?
Un modo di sentire me stessa e l’esistenza, seguito dal desiderio istintivo di tramutare tale sentire in parole. Un modo di pensare direttamente in scrittura. La poesia, quella “bella” naturalmente, è un genere speciale, è musica che tocca i tre punti cardini della persona: cervello, cuore, pancia. E li intreccia.
Sono molte le poetesse? Quali temi trattano solitamente?
Numerose sono state e sono le poetesse, alcune famose e altre che meriterebbero decisamente più fama. La loro voce impreziosisce tutte le letterature. Quali temi trattano? Certo non le ho lette tutte, i temi sono tanti, la natura, l’amore, l’arte, la solitudine, la sofferenza, la maternità, la delusione, la lotta, la rabbia… Se dovessi usare una sola parola che sintetizzi direi l’esistenza. Come per i poeti naturalmente.
Ti sei ispirata a qualche poeta/poetessa?
La poesia russa e francese: Majakovskij, Achmatova, Cvetaeva, Esenin, Brodskij, poi Louise Labé, il padre della poesia moderna Baudelaire, Rimbaud, ma anche Lorca, Dickinson, Leopardi e le grandi poetesse italiane Di Morra, Pozzi, Rosselli, Spaziani, Merini, Romagnoli, Cavalli. E tante altre e altri.
Preferisci la poesia o la prosa e perché?
Poesia e prosa hanno funzioni espressive differenti, nella poesia la parola, anche singola, scava nel profondo, è scelta, misurata, ha un proprio suono, una propria musica, si basa magari solo su un’immagine, in me suscita un’empatia maggiore. Poiché amo però molto anche le storie, la narrazione, quella speciale suspense quando un libro, ma anche un film, ti prendono e vuoi conoscerne il finale, i personaggi, mi piacciono molto anche i romanzi e i racconti. I racconti in particolare, mi viene in mente Maupassant o anche il contemporaneo francese Thomas, quelli brevi in particolare possono anche avvicinarsi a un tipo di poesia che narra. Insomma due generi certo diversi, ciò non toglie che una poesia, con la sua modalità, possa raccontare o che un romanzo ci regali pagine di poesia.
Hai scritto libri di poesia, a quale sei più legata?
Dal 2012 ho pubblicato due raccolte poetiche: È finito il miele nella coppa e Senza unico filo che conduca di Eretica edizioni. Ne ho una in cantiere, poi anche racconti brevi. Non ho francamente preferenze, scaturiscono da due momenti di vita differenti, il primo è più doloroso, per alcune liriche forse sì, ma chi le ha lette ne ha spesso preferito altre. Dopo averlo scritto il libro prende una strada sua, a seconda di chi lo legge.
La poesia è scavare all’interno?
La poesia scava dentro, ma anche nel mondo esterno e trova un po’ di tutto, desideri, squallori, amore, sofferenza, ma può anche trovare e regalare a chi la legge e a chi la scrive soluzioni di pace e serenità. Può consolare.
Ci parli di Poete di Puglia?
Poete di Puglia è un’interessante rubrica, che mi ha gentilmente ospitata, dedicata alle scritture poetiche femminili pugliesi del blog Circolo Letterario Vento Adriatico di Antonella Vairano e la cui direzione politico/culturale è quella di promuovere e diffondere la poesia. Sono belle e utili iniziative.
Perché poete e non poetesse?
Il genere femminile nelle lingue, nell’ambito delle professioni e delle cariche, ha dovuto e deve chiaramente rispondere alla rapida evoluzione della storia delle donne. Non si tratta quindi di una mera questione grammaticale, ma ha una più vasta implicazione culturale e ideologica. Ma veniamo a poeta/poetessa, non è la prima volta che me lo chiedono e, a giudicare dall’oracolo Google, se lo chiedono in parecchi. La parola poetessa è presente nella nostra lingua da secoli, la parola poeta riferita a una donna appare ben più di recente. L’Accademia della Crusca attesta la forma poetessa, presente sin dal Quattrocento. Naturalmente anche il vocabolario Treccani mette poetessa come unico femminile.
La linguista Alma Sabatini alla fine degli anni Ottanta nel suo rivoluzionario libro Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, suggerisce di evitare le forme in –essa e propone, per esempio, dottora, professora, avvocata. Questa proposta, continua L’Accademia della Crusca, non ha avuto successo, tranne avvocata (anche se l’uso del maschile riferito a una donna, almeno all’orale, mi sembra ancora molto frequente). Sabatini suggerisce l’epiceno poeta (come atleta) che non ha come il suffisso –essa una connotazione spregiativa e che ricalca foneticamente la maggioranza dei nomi femminili.
Va detto che illustri poetesse italiane preferivano e preferiscono il femminile poeta. Mi viene in mente, solo per citarne una, perché l’ho letta recentemente, Patrizia Cavalli che, in un’intervista al Corriere della sera, alla domanda perché si facesse chiamare poeta risponde “Perché poetessa fa ridere, dai. […] Sembra quasi una presa in giro”. Insomma il suffisso –essa ha una connotazione ironica o dispregiativa come medichessa o presidentessa per designare la moglie del presidente.
Nel terzo millennio credo tuttavia che la parola poetessa (come dottoressa o professoressa) non abbia tale connotazione. Inoltre il termine è davvero antico. Perché cambiarlo? Io preferisco utilizzare il femminile poetessa e ritengo che poeta, per giunta un epiceno, quindi ambigenere, che “costringe” a mettere l’articolo davanti per determinare il genere, quando poetessa va da sé al femminile, sia un po’ una forzatura. Comunque poeta o poetessa (ai posteri l’ardua sentenza) auguriamoci che la poesia, non solo femminile naturalmente, sia sempre più valorizzata e abbia soprattutto sempre più lettrici e lettori. Concludo scherzando: poeta mi sarebbe anche andato bene, però mutando il maschile in poeto. Già, perché la formazione del femminile parte sempre dal maschile, come Eva dalla costola di Adamo…