un film di Andrea Segre
con Elio Germano
Dal 31 ottobre nelle sale
Difficile, quasi impossibile rispecchiarsi quando si vedono sullo schermo momenti che abbiamo attraversato in prima persona: Ricordo bene gli anni Settanta, Ricordo Berlinguer, il compromesso storico, le manifestazioni, il terrorismo e il rapimento Moro.
Ero giovane, avevo l’età dei figli del segretario del Partito Comunista e anch’io mi confrontavo con “i grandi” che cercavano di placare gli animi di noi ragazzi, pervasi dal fervore rivoluzionario e avversi a tutto quello che sapeva di vecchio, compreso il Pci e l’Unione Sovietica.
Fra i manifestanti che in spezzoni d’archivio compaiono nel film di Andrea Segre presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma e sugli schermi a fine mese, c’ero forse anch’io. O avrei comunque potuto esserci.
Ecco perché ho guardato con una certa titubanza questo racconto che intreccia la cronaca politica con la vita privata del segretario del più forte partito comunista di tutto il mondo occidentale. Impresa titanica rievocare quegli anni, così fitti, complicati e mi chiedo quanto uno spettatore non italiano possa comprendere quello che accadeva in Italia fra il 1973 e il 1978.
Elio Germano nei panni di Berlinguer è fantastico, perché non punta alla somiglianza come avrebbe fatto un attore americano ma all’empatia. Si impossessa della voce e dell’accento sardo, fa suoi i gesti, la postura, la camminata mite e sghemba, lo sguardo malinconico ma resta Elio Germano senza la pretesa di trasformarsi in Enrico Berlinguer: vuole solo raccontarlo.
Più difficile far pace con tutti gli altri, Moro, Andreotti, Nilde Iotti, Terracini, Ingrao … insomma i grandi protagonisti comunisti e democristiani del cammino incidentato verso il compromesso storico. Attori truccati per assomigliare ai personaggi veri con un effetto un po’ fastidioso perché o si è perfetti, traguardo impossibile se non sei De Niro, o si sfiora il ridicolo.
Meglio per quanto riguarda le parole, tantissime, perché era così che accadeva allora: si discuteva sempre, ci si confrontava su tutto. E le parole del film sono tutte giuste, calibrate, riconoscibili. Perfetto il linguaggio degli operai che pongono domande a Berlinguer, in visita nella fabbrica, credibile il tono e l’intercalare, così come la ricostruzione dell’atmosfera alle feste dell’Unità.
Quanto avrà faticato il regista Andrea Segre a decidere invece la rappresentazione delle alleanze, le scelte politiche, il rapporto delicatissimo con un Urss troppo invadente, l’incidente d’auto di Berlinguer in Bulgaria: volevano davvero ucciderlo?
Più semplice immagino rievocare la vita privata di questo uomo onesto e buono, con una famiglia che sempre lo sosteneva anche nei momenti più spinosi, figli e moglie, tutti consapevoli della missione di un uomo votato al partito e alla salvezza dell’umanità. Un ambizioso visionario, un sognatore, ma anche realista e attento alla ragione di stato.
Ecco il punto: la lettura politica. Che però, e vale come giustificazione, è davvero una sfida, perché è impossibile spiegare in maniera esaustiva quel periodo.
Il rapimento Moro nel film viene introdotto dal golpe in Cile (sostenuto dagli americani), dalla scena di cimici piazzate nelle case (ma da chi? Si può solo presumere: i servizi segreti), da tutti gli incontri fra leader incentrati sulla praticabilità di un compromesso fra Dc e Pci. In conclusione le Brigate Rosse (che vengono citate, ma solo per l’uccisione del giudice Francesco Coco), vengono confinate nel ruolo di “esecutori”. Perché “dietro”, fa intuire il film, c’era qualcosa di molto più potente che voleva opporsi al compromesso storico, a un’alleanza sgradita all’America.
Interpretazione legittima ma non da tutti condivisibile.
Certo i funerali del leader morto all’improvviso a 62 anni, a cui parteciparono un milione e mezzo di persone sono emozionanti e arriva qualche lacrima per il destino di un uomo che ha dedicato con onestà tutta la vita al bene degli altri, credendoci. Resta la sensazione che su quegli anni ci sia ancora molto, moltissimo da scoprire, resta l’angosciante sospetto che non si arriverà mai alla verità definitiva.
1 commento
Ricordo che fu l’unica volta che piansi per la morte di un estraneo.