Noi donne l’abbiamo sempre saputo, chi è Filippo Turetta. Lo sappiamo, quando afferma che «non poteva vivere senza di lei», senza Giulia che non nomina mai. Lei. Perché è «lei» che non si riesce a tollerare libera, lei, non tanto e solo Giulia, ma Giulia in quanto donna.
«Lui» non poteva vivere, ma «lui» è ancora vivo. «Lui», che non ce la faceva, si è però ben guardato dal sopprimere sé stesso. Non poteva vivere ma ha eliminato «lei», che invece di vivere aveva il gusto e l’intenzione.
Lui che non tollerava la mancanza d’un «rapporto». Ma quale rapporto? Gli mancava il sesso, forse; ma il sesso non basta a definire un rapporto. Il rapporto implica una relazione, l’«intuarsi» dantesco nell’altra/o.
Ciò che mancava a Turetta era la pretesa. Non un movimento verso il Tu, ma un’egolatria gelosa, possessiva, permalosa. Nient’affatto un rapporto, un uscire da sé. Ma l’arroccarsi nel proprio privilegio, non permettere a nessuna di uscire dalla prigione. Un feroce maschio ordinario.
E questo le donne lo sanno da sempre, lo sanno, si potrebbe dire, per istinto, anche se poi ci provano sempre, a dare fiducia a chi le tradirà. Nessun miglior commento alla vicenda, non l’ultima – le cronache di questi giorni lo confermano – del Monologo composto lo scorso anno da Gloria e Valentina, studentesse dell’IIS «Enrico De Nicola» di Sesto San Giovanni (Milano).
Lasciamo quindi a loro le parole finali. Sorprendentemente simili, se non uguali, a quelle pronunciate da una manifestante iraniana che, ormai abbandonata dai riflettori mondiali, continua a battersi per la stessa causa. Donna, vita, libertà.
Perché le donne lo sanno, l’hanno sempre saputo. In Italia come in Iran, in Afghanistan come in Cina, in Australia come in Nigeria. Le donne sanno che fin quando non verrà riconosciuta la loro piena umanità, un Filippo Turetta le attenderà sempre, in qualsiasi angolo del pianeta, affinché tornino schiave, o morte.
«Non sarò libera finchè ogni donna non sarà libera, anche se le sue catene sono molto diverse dalle mie»
(Audre Lorde)