un film di Clint Eastwood
con Nicholas Hoult, Toni Colette, J.K. Simmons, Chris Messina, Gabriel Basso, Zoey Deutch, Cedric Yarbrough, Leslie Bibb, Kiefer Sutherland
Dal 14 novembre nelle sale
Malati di sbornia cinefila, tanti anni fa, ci divertivamo a irridere Clint Eastwood dicendo che l’attore aveva solo due espressioni: col poncho e senza poncho. Non fossero bastati i western di Sergio Leone, arrivò Dirty Harry, la serie sull’ispettore Callaghan che non guardava troppo per il sottile quando c’era da fare giustizia. A quel punto, l’anatema sul divo era il peggiore: un fascista. Poi, da quando è passato dietro la macchina da presa, è arrivato il momento del ripensamento. Perché davanti a Clint Eastwood, impavido 94enne che si ostina a girare film, non possiamo che inchinarci: sa raccontare la società americana ma anche i dilemmi dell’uomo moderno come pochi altri.
E l’ultimo film lo conferma, mostrandoci una società, siamo in Georgia ma è il mondo intero protagonista, dove niente è bianco o nero, ma tutto appare sfumato, variegato in un’infinita tonalità di grigi. Un mondo dove verità e giustizia raramente collimano, dove alle spalle di ogni comportamento giocano complesse motivazioni, spesso in contrasto fra di loro. Viva la complessità dunque e grazie al regista che sa traportarla così bene sullo schermo. Umilmente e saggiamente a differenza di troppi “autori” (anche italiani) non ha l’arroganza di fare tutto da solo, ma si avvale di una folta schiera di collaboratori. In Giurato n 2, spicca soprattutto lo sceneggiatore, Jonathan Abrams, che ha scritto un copione da Oscar.
Siamo nel sud degli Stati Uniti, in Georgia. Eastwood predilige il racconto chiaro, perché vuole farsi capire dallo spettatore e mette subito le carte sul tavolo: c’è un processo, c’è una giuria. Il processo è contro un giovane uomo dal passato turbolento in una gang, accusato di avere picchiato a morte e scaraventato in un fosso la fidanzata, dopo una serata passata in un pub. Lì avevano litigato con modi violenti facendosi notare da tutti. Quello che è successo dopo la lite è quello che deve essere dimostrato dalla pubblica accusa e giudicato dalla giuria.
Nella giuria, il cui meccanismo viene spiegato in modo quasi didascalico dal regista, viene chiamato fra gli altri Justin Kemp (Nicholas Hoult), un bravo marito in attesa di un bambino che però è uscito a fatica da anni di dipendenza alcolica. L’accusato è il colpevole ideale che può anche aiutare il procuratore Faith Killebrew (Toni Colette, quanto è brava) impegnato in una campagna elettorale.
Tutto potrebbe risolversi in fretta, ma non è così perché al primo dibattimento (e non rivelo nulla, perché succede all’inizio del film) Justin scopre che in realtà potrebbe essere lui il colpevole: quella stessa sera, all’ora del presunto omicidio, percorreva quella stessa strada, sotto una pioggia battente. Era stravolto, perché la moglie aveva perso i gemelli che aspettava, si era fermato nello stesso pub e stava per rompere il patto di astinenza dall’alcol. Pioveva forte, non si vedeva niente e a un certo punto la sua auto colpisce qualcosa. Scende, non vede nessuno a terra ma solo un cartello con la scritta attenzione passaggio animali. Convinto di avere investito un cervo torna a casa.
A questo punto inizia il film vero e proprio, che si sviluppa secondo una struttura che ricorda le storie di Kieslowski, quelle con al centro dilemmi etici, ancor più che morali.
Cosa farà Justin e, impossibile non pensarci, cosa faremmo noi al suo posto? Confessare rischiando la prigione per omicidio stradale, lasciando così sola la moglie prossima al parto? Lasciare che venga condannato un innocente? Premere sulla giuria che insinuare dubbi e convincere tutti della non colpevolezza dell’imputato?
Tutte le strade sono impervie, tutte presentano lati a favore e altri contro. Se la verità è una sola, la giustizia può percorrere molte strade. Il film si dipana seguendo un percorso impeccabile, tesissimo, mettendo a fuoco le mille contraddizioni di noi umani e dei sistemi politico-giudiziari-amministrativi. I giudizi e i pregiudizi. La fragilità delle giurie dove ciascuno decide anche sulla scorta delle proprie convinzioni e delle proprie esperienze.
Eastwood, americano nel profondo, sincero fino a farsi male (tanto ormai, a 94 anni può permettersi tutto), non perdona niente a nessuno, indaga con precisione chirurgica sul concetto di verità, su quello che diciamo e quello che teniamo nascosto, utilizzando gli artifici cinematografici per mostrare il conflitto, c’è la bilancia della giustizia, c’è l’ambizione del procuratore, c’è la benda sugli occhi, vera e metaforica, della moglie del giurato numero 2.
Il film segue il suo filo narrativo, impeccabile e appassionante, Clint Eastwood segue la sua etica: la democrazia americana e il sistema giudiziario americano saranno anche imperfetti, ma sono i migliori che abbiamo e senza dubbio, il regista ne è convinto (e io pure) possiedono l’intrinseca capacità di mettere in campo dei correttivi. Come noi esseri umani, quando siamo onesti. Clint Eastwood lo è, vecchio solido uomo che crede nei diritti e nella giustizia. E nel cinema.