“Sono rari i processi che si concludono con una condanna, come ha rilevato in uno studio Louise Fitzgerald (1995) psicologa sociale e docente emerita di Psychology and Women’s studies all’Università dell’Illinois: soltanto l’1% denuncia e solo un terzo vince la causa. In un’intervista del 2018, Catharine MacKinnon, giurista e attivista americana, una delle pioniere degli studi in materia, ha spiegato che la situazione negli ultimi vent’anni non è migliorata.”
Scrive così la giornalista d’inchiesta Stefania Prandi nel suo capitolo frutto di anni di lavoro nel campo (è l’autrice del reportage Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo, edito da Settenove) a riguardo delle molestie sessuali sulle lavoratrici dell’agricoltura in Italia, in Spagna e Marocco. Chi paga il prezzo più alto di fragole e pomodori, capitolo del saggio Le molestie sessuali-Riconoscere, combatterle, prevenirle, a cura di Patrizia Romito e Mariachiara Feresin (di cui ho parlato qui).
” per usare la definizione dell’antropologa Paola Tabet (2014). Devono cioè assicurare sesso in cambio di una ricompensa, che nei casi analizzati consiste nel poter lavorare. Una regola non scritta, sottesa, un tabù, una realtà reiterata e silenziata, sotto gli occhi di tutti, spacciata per normale.
Per capire il fenomeno, bisogna considerare, seguendo le intuizioni di Tabet, che la violenza non è un fatto individuale, ma è un prodotto della società, uno dei meccanismi sociali decisivi per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.”
Il futuro
“Un’altra forma di ribellione è immaginare un futuro diverso per le proprie figlie. <In tutte le nostre ricerche accademiche. abbiamo riscontrato che le braccianti non vogliono che le figlie finiscano a fare il loro stesso lavoro, perciò si impegnano per farle studiare. Ci sono esempi positivi, donne anziane con figlie che sono andate all’università e che adesso hanno un buon posto, ma per la maggior parte lo scatto sociale resta un miraggio> (Prandi, 2018, p. 91). Così spiega Mohamed Bouchelkha (2016), professore di Geografia rurale e sociale all’Università di Agadir, da anni impegnato in ricerche sulle lavoratrici marocchine. Ha organizzato convegni sul tema e partecipa a incontri accademici internazionali. Bouchelkha sostiene che, per superare le ingiustizie, le leggi non sono la risposta: è la mentalità che va cambiata. Le norme ci sono già, come in altri paesi, bisogna trovare il modo di applicarle nella quotidianità. Per farlo è necessario sensibilizzare donne e uomini, organizzare corsi di formazione e iniziative che stimolino la consapevolezza. Servono programmi di alfabetizzazione, bisogna educare alla parità, cominciando dalle scuole, dove già si incontrano gli stessi schemi che danno origine alle disparità di genere.
In conclusione, va considerato che le braccianti, per quanto messe a tacere, sanno e vogliono parlare, al contrario di quanto mi è stato detto per mesi da associazioni, sindacalisti e abitanti del posto. Riescono a prendere la parola se viene assicurato loro l’anonimato, come ho fatto nella mia ricerca, dove tutti i nomi sono stati cambiati, e se si sentono libere di arrivare fino a dove decidono nel loro racconto. La presa di parola rappresenta una Prima forma di rivendicazione a patto che siano loro a stabilire la forma e il livello della narrazione. Entrare nel dettaglio di particolari scabrosi non interessa alle vittime, che vogliono essere considerate per la capacità di analisi della realtà che vivono. Raccontare non deve significare perdere la dignità e soprattutto l’incolumità, come invece sembrano troppe volte dimostrare i media che raccolgono le storie senza rispetto delle soggettività prese in esame.”
Noi ringraziamo questa coraggiosa giornalista d’inchiesta per il lavoro che svolge e come lo svolge, e per scoperchiare con esso il vaso di Pandora della violenza. Oggi si guarda poco a questi aspetti e contesti che invece dovrebbero essere centrali nel dibattito e nelle azioni intorno alla violenza maschile.
L’Italia e il mondo
Il 29 Ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica della Convenzione OIL del 2019 sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro (n. 190) , adottata a Ginevra il 21 giugno 2019, diventando il nono paese al mondo — e il secondo in Europa — a ratificare il trattato internazionale (l. 4/2021).
Per le lavoratrici e i lavoratori costituisce una svolta: per la prima volta lo Stato riconosce senza reticenze che violenza e molestie sul luogo di lavoro possono costituire violazione dei diritti umani, rappresentano minaccia alle pari opportunità e risultano incompatibili con il lavoro dignitoso. Un importante ed essenziale strumento giuridico per sancire il diritto a un ambiente di lavoro libero dalla violenza e dalle molestie, che si concretizzano in comportamenti che offendono la dignità, la libertà personale e sessuale, la salute, il diritto al lavoro, tutti valori e principi costituzionalmente rilevanti.
Si tratta di una delle numerose forme di violenza, di cui le donne sono le vittime più numerose e che si fondano sulla vulnerabilità delle lavoratrici, spesso precarie e con figli: per questo è più difficile segnalare e denunciare le molestie subite nel luogo di lavoro. Secondo l’indagine ISTAT condotta nel 2016, le donne che hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro dal 2013 al 2016 sono 425.000. Solo l’1,2% ha denunciato.
Dopo la ratifica, lo Stato avrebbe dovuto eseguire quanto sottoscritto, attuando quella tolleranza zero di cui si parla nell’introduzione dell’atto di ratifica, applicandola attraverso leggi e regolamenti, contratti collettivi e altre misure, incluso l’ampliamento e l’adattamento delle misure esistenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro, come l’art.12 della Convenzione richiede.
Intanto, confidiamo anche in un’azione preventiva, di deterrente e di orientamento giurisprudenziale (qualcosa si inizia a vedere in Cassazione) e delle Forze dell’Ordine chiamate ad ascoltare e a sostenere le vittime, nella speranza che presto venga introdotta una legislazione organica nella materia più generale del mobbing.
Tale ratifica offre visibilità a un fenomeno troppo a lungo rimasto invisibile e offre alle lavoratrici la chiave per riconoscere sin dall’inizio i segnali degli abusi che subiscono e consapevolezza dei propri diritti.
Riconoscere e affermare che la violenza e le molestie nel lavoro hanno un impatto sulla salute psicologica, fisica, sessuale e sulla vita familiare delle donne, e il riconoscimento che questo costituisce una grave minaccia alle pari opportunità, è una grande occasione di cambiamento.
Offrire protezione a tutte le lavoratrici e lavoratori, indipendentemente dallo status contrattuale (personale in formazione, inclusi i tirocinanti gli apprendisti, i lavoratori licenziati, le persone alla ricerca di un impiego e i candidati ad un lavoro) rientra tra i doveri e le responsabilità di un datore di lavoro.
L’art 40 sulle molestie sessuali della Convenzione di Istanbul (Convenzione europea sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, in vigore in Italia dal 9.01.2013) impone agli Stati firmatari di provvedere a definire e sanzionare le molestie: fino ad oggi non ha ancora trovato esecuzione completa. “L’ordinamento italiano non prevede una fattispecie penale specifica in tema di molestie sessuali, neppure con riguardo alla molestia messa in atto nell’ambito di un rapporto di lavoro, dove la vittima è maggiormente vulnerabile e ricattabile e dove il comportamento di molestia può più facilmente assumere i connotati di vero e proprio abuso di potere. In relazione a come si manifesta, il comportamento di molestia può essere ricondotto ad altre fattispecie di reato che, però, non coprono tutta l’area cui l’art. 40 fa riferimento”. (vedi osservazioni Grevio pag. 44)
Per il prossimo 8 marzo è atteso testo unico: sarà un testo riassuntivo di tutte le disposizioni sulla violenza di genere, la discriminazione sul lavoro, gli ostacoli all’empowerment, e tutti gli ambiti in cui si esprime la violenza contro le donne. Lo ha richiesto all’unanimità la commissione d’inchiesta sui femminicidi presieduta da Martina Semenzato.
Non si tratta solo di tutelare la salute psicofisica o le condizioni economiche delle donne che subiscono molestie, o la produttività in azienda. I costi della violenza sono sempre anche sociali, ledono la convivenza civile e democratica del Paese. Oggi serve agire.