Alle origini della Resistenza: un’altra vita è possibile
Meno evidente di quella maschile, in storie come queste affiora, quasi in filigrana, la genealogia delle madri. Lea, come Dilva, nell’ora decisiva sceglie la Resistenza perché ha imparato, sin da bambina, di meritare qualcosa di più e di meglio di ciò che vogliono farle credere la società, la chiesa, i datori di lavoro. Hanno assorbito dallo sguardo amorevole e combattivo delle proprie mamme la consapevolezza di essere brave, preziose, importanti. Sanno, perché gliel’hanno fatto sentire sulla pelle.
Come una carezza al momento giusto, che un altro mondo e un’altra vita sono possibili, anche per donne povere e senza istruzione come loro. E vale la pena impegnarsi, per questo.
All’amore si mescola spesso l’esempio, che vale due volte quello di un uomo, perché sfida un ordine patriarcale ben più antico e radicato del fascismo.
Gina Negrini, per esempio, giovanissima operaia bolognese, sente di essere la punta dell’iceberg di una stirpe di donne capaci, ognuna a suo modo, di sovvertire gli schemi che le vogliono spose e madri, pena l’irrilevanza e l’emarginazione, se non peggio. La nonna, innanzitutto, un’autodidatta spaventosa> che <non aveva mai avuto tempo Per amare, perché era sempre presa dal lavoro>. La zia Armida, <ardita e ingambissima>, che aveva sparato ai fascisti per difendere il fratello e si era <buttata in un massacro> per non sposarsi. E la madre operaia, che aveva coltivato comunque il piacere dei libri e della poesia. <La mia famiglia aveva un mulino ed eravamo in sette. Famiglia matriarcale, perché era la nonna che faceva tutto>, ricorda Elvira Faè. Clementina Succio ritrova le radici del suo impegno nello sciopero per le otto ore delle mondine, nel 1906. Aveva 5 anni, ma si ricorda bene che la sua mamma nascose due ragazze: <i carabinieri le cercavano e le abbiamo tenute nelle nostre soffitte, nascoste lì, per due o tre giorni>,.
<Madri con alle spalle esperienze durissime di cui temono il ripetersi nella figlia, ma nello stesso tempo concordi solidali stimolatrici>, sintetizza Bianca Guidetti Serra, che ha raccolto queste e molte altre storie delle donne che aveva conosciuto prima lavorando come assistente sociale nelle fabbriche per mantenersi agli studi e, dopo il `43, nell’impegno clandestino per la Resistenza.
La guerra ha una parte importante nel rivelare alle figlie e al mondo una miriade di storie di ordinaria eccezionalità che si riallacciano alla mitologia domestica delle generazioni precedenti, alla Grande guerra delle madri-capofamiglia che rimpiazzano i mariti mandati al fronte e fanno, letteralmente, miracoli, riuscendo a proteggere e sfamare tutta la tribù. Altro che sesso debole: L’anello forte è il titolo che sceglie Nuto Revelli per raccontare alcune di loro.
Gli strappi della vita
Ha tredici anni, Marisa Ombra, quando l’orizzonte quieto della sua esistenza è squarciato dalla morte improvvisa della nonna. Era la prima volta che il dolore mi rovinava addosso, precipitandomi nel caos. Con il dolore arrivarono le domande senza risposta, i dubbi sulla religione, le domande sul senso della vita. Arrivò l’anoressia. Che era allora una malattia misteriosa>, Marisa si riduce a quaranta chili. <Di quegli anni – almeno quattro o cinque>, scrive e ricordo alcune cose molto precise: la concentrazione sul pensare, senza venire a capo di niente; l’insopportabilità di sentire sul mio corpo qualcosa che non fosse puro scheletro […] L`insonnia. L’angoscia che mi dava il fischio lontano dei treni e la voce arrochita di un ubriaco che cantava [] Ne uscii quando mio padre mi affido un compito pericoloso e affascinante>. Doveva battere a macchina su certi cliché -che avrebbero consentito di riprodurli – volantini contro la guerra, per l’aumento delle razioni, per la distribuzione di carbone eccetera. Era l’inverno tra il 1942 e il 1943 e <la vita tornava ad avere senso)
La Resistenza allora è innanzitutto una rivoluzione interiore, scrive ancora Marisa Ombra, con parole vibranti: <Per la prima volta prendevo decisioni importanti, assumevo responsabilità personali impensate fino a quel momento e me le assumevo da sola, senza il sostegno e il consiglio dei famigliari. Improvvisamente ero adulta e responsabile di me stessa. Questo sentimento si accompagnava a una sensazione di straordinaria libertà. […] Quando mi trovai a domandarmi qual era la cosa più importante rimasta nella memoria, tutto si condensa in quel punto preciso: la straordinaria sensazione di libertà. Una libertà senza aggettivi […] Libertà e responsabilità sono stati i sentimenti più forti che mi hanno accompagnata lungo tutto il periodo della resistenza >
Più o meno consapevolmente, moltissime donne vivono l’adesione alla lotta partigiana nello stesso modo, come un momento di rottura e rinascita. Uno slancio di ribellione esistenziale, prepolitica, che precede la maturazione di una posizione antifascista. La grande guerra di Liberazione s’intreccia così con una miriade di minuscole ma per loro gigantesche – lotte di liberazione personale (dai limiti imposti dalla famiglia, dalle condizioni sociali dall’essere donna, dai propri demoni personali) che, tutte insieme, danno vita a una grande, inedita guerra di liberazione delle donne.
I Gruppi di difesa della donna
Milano. La luce fioca del pomeriggio invernale rivela la stanza senza pretese di un appartamento come mille altri, in una strada defilata di periferia. Ancora una volta, niente foto: la scena ce la dobbiamo immaginare dai racconti delle protagoniste. Siamo nel novembre 1943, forse il giorno 13 (o il 15? i resoconti divergono). Una grande stufa rossa illumina il grigiore del tinello. Attorno alla stufa, cinque donne, intente a discutere. Sono Giulietta Fibbi, detta Lina, operaia tessile di Fiesole, membro del comando generale delle brigate Garibaldi a Milano; Giovanna Barcellona, lodigiana, insegnante, anche lei già coinvolta nella neonata Resistenza milanese; Ada Prospero, vedova del martire antifascista Piero Gobetti, venuta apposta da Torino; Lina (per Angelina) Merlin, veneta del Padovano, anche lei insegnante, oltre che giornalista per varie pubblicazioni clandestine dei lavoratori; Rina (Caterina) Picolato, sarta e poi operaia torinese. Fibbi, la più giovane, ha 23 anni, Merlin, la più anziana, ne ha 56. Tre comuniste, un’azionista, una socialista: mancano solo una democristiana e una liberale, per rappresentare tutti i Partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, che ha dato loro mandato di gettare le basi di un’organizzazione femminile unitaria e di massa. Le donne sono pratiche, si sa, non amano menare il can per l’aia, specialmente quando c’è tanto da fare. Prima che scatti il coprifuoco hanno già definito il nome, il tipo di organizzazione e un programma di massima per il coinvolgimento delle donne nella lotta di liberazione. Così Nadia Spano descrive (per come gliel’hanno raccontata, lei non c’era) la riunione clandestina delle <donne della stufa rossa, come le chiameranno negli anni a venire, in cui, secondo la vulgata ufficiale, vengono fondati i <Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà>, o Gdd. Sono l’evoluzione naturale delle innumerevoli iniziative spontanee messe in atto da singole donne o piccoli gruppi e comitati locali dopo l’8 settembre, soprattutto nella sua terra d’origine, l’Emilia ma anche altrove, in particolare a Torino, Milano, nei grandi quartieri operai delle periferie. Il primo documento è diffuso in forma dattiloscritta il 28 novembre 1943.
Come spesso accade per episodi che diventano momenti storici a posteriori, la realtà viene abbellita per renderla più icastica, mentre le reminiscenze dei testimoni raramente coincidono.
<Non ricordo se nella casa c’era una stufa rossa>, dice Lina Fibbi molti anni dopo, <ricordo che ci siamo trovate in un appartamento di Milano, ma allora si era costretti a cambiare le case cosi spesso che è difficile ricordare.. Quello che ricordo con certezza è che non ci incontrammo quel giorno per fondare i Gruppi, non sono cose che nascono in un giorno [..] [ma] per decidere la responsabile (Rina Picolato), il nome definitivo, un documento che contenesse lo scopo e gli obiettivi>,
Quanto a Ada Gobetti, stando al ricordo che affida al proprio diario, davanti alla fantomatica stufa rossa lei non c’era proprio. Annota infatti in data ro dicembre 1943: <Oggi è venuta da me una donna comunista a parlarmi dell’organizzazione femminile di cui dovrò occuparmi. E semplice e simpatica e si fa chiamare Rosetta> -è Maria Bronzo <L’organizzazione si chiama ” Gruppi di difesa della donna e per l’assistenza ai combattenti della libertà “>.
Nella sua versione dei fatti, a coinvolgerla era stato, in prima battuta, un vecchio amico, l’avvocato Eugenio Libois (si conoscono da vent`anni), allora rappresentante dei democristiani nel Comitato di Liberazione clandestino. Era andato a trovarla il 27 novembre, invitandola a impegnarsi (ma di fatto è un ordine, scopre Ada, quando prova a schermirsi) per dare vita a <un’organizzazione femminile che ha lo scopo di attivizzare le donne nella lotta clandestina>. L’iniziativa ha origine dalle direttive per il lavoro tra le masse femminili del Partito comunista, ma si vuole che abbia carattere assolutamente trasversale
Nello spirito ciellenista, dovrebbe aggregare < donne di ogni ceto sociale, […] di ogni fede religiosa, di ogni tendenza politica, donne senza partito>, proclamando <completa indipendenza […] da ogni partito> – così nell’atto costitutivo. La realtà è più complicata. Non mancheranno incomprensioni e fratture (la frastagliata, faticosa, generosa ma sempre dialettica <unità> caratteristica della nostra Resistenza). Nei diversi partiti antifascisti si erano costituiti infatti altri movimenti femminili, refrattari ad assoggettarsi a un’egemonia da parte dei comunisti; per una confluenza ufficiale, secondo il diario di Ada Gobetti, bisogna attendere il 21 ottobre 1944, con la Prima riunione al completo dei Gdd, di nuovo a Milano.
Il nome
Ada (Gobetti) storce subito il naso sul nome. <Non mi piace; in primo luogo è troppo lungo; e poi perché “difesa’” della donna e “assistenza” ecc.? non sarebbe più semplice dire “volontarie della libertà” anche per le donne?> commenta. Si capisce lontano un miglio che la denominazione verbosa e pilatesca è stata partorita da uomini comunisti e democristiani preoccupati di non far sollevare il sopracciglio a nessuno. < Coinvolgimento> della donna, non <difesa”, sarebbe molto più appropriato. Se qualcuno ha difeso qualcuno, nelle settimane precedenti, sono state piuttosto le donne a difendere gli uomini, nascondendoli rivestendoli, nutrendoli e mettendoli in salvo. Sono in tante a condividere il suo disappunto. La denominazione mi metteva a disagio>, racconta Marisa Ombra, <mi pareva strana e che soprattutto non rispondesse per nulla a ciò che i gruppi facevano> Alla fine Si rassegnano. Le comuniste soprattutto, abituate a seguire la linea del partito ed escogitare modi per farla digerire alle compagne. Teresa Bosco, per esempio, nome di battaglia Marta Sciarpina, militante di lungo corso (classe 98, arrestata e Poi fuoriuscita in Francia come Maria Bronzo aveva mantenuto tutta la famiglia facendo la sarta), che aveva partecipato all`iniziativa sin dalle prime riunioni, invitava a non badarci troppo: < Quando la guerra sarà finita cambieremo denominazione>, diceva a chi s’inalberava sul nome, < ma per adesso mettiamo così> (non ha torto, in effetti: anche in Francia le donne della rete d’assistenza erano state denominate marraines – ossia <madrine> – des francstireurs et partisans, ma rivendicavano d’esser pronte a combattere, nel solco delle loro antenate che avevano preso la Bastiglia). Oppure ci ricamano su. La <difesa della donna> non alluderebbe a una presunta debolezza che la rende bisognosa di protezione, ma alla difesa dei suoi diritti, è l’interpretazione di una delle cofondatrici, Pina Palumbo; la stessa spiegazione si trova nell’ autobiografia dell’allora giovanissima Teresa Vergalli: <si pensava di dover non solo difenderci dalle bombe e dalla fame e pensare a un futuro di pace, ma anche prepararci a lottare contro le ingiustizie e le disparità tra maschi e femmine>
Col tempo, conclude Marisa Ombra < mi spiegai questi curiosi riferimenti alla difesa e all’assistenza con la preoccupazione da parte dei dirigenti politici che parole più radicali potessero impaurire le donne>. Proprio cosi. E una scelta opportunistica (di marketing, diremmo oggi), o se vogliamo un’astuta dissimulazione. I prudenti leader politici sanno bene che il grosso della società italiana è ancora molto arretrato e la maggior parte delle donne ha introiettato profondamente il modello sociale tradizionale e patriarcale.
Un impegno naturale
E in effetti il passaggio dal <maternage> di massa alla Resistenza coi Gdd per molte donne è una cosa del tutto naturale, perché questi riprendono, su vasta scala e in modo organizzato, tante delle attività già spontaneamente intraprese dalle donne di tutta Italia dopo armistizio. Ma i Gruppi fanno molto di più.
COMPITI DEI GRUPPI DI DIFESA DELLA DONNA
1 Dirigere le masse femminili verso la lotta di liberazione nazio- nale e farle partecipare attivamente e coscientemetle a questa lotta.
2 Portare la donna in un piano di parità rispetto all’uomo nel campo giuridico, economico politico potenziando e valorizzando quelle che possono essere le sue funzioni specifiche come donna
3 Studiare i problemi femminili, specialmente quelli nazionali, guidarli verso una soluzione democratica progressiva.
Come si possono realizzare in pratica le funzioni su definite;
Per il punto 1); a) assistenza ai combattenti della libertà assistenza in denaro, vestiario, generi alimentari, medicinali assistenza sanitaria, culturale, ecc. Importante è la raccolta fra le popolazioni di tutto quanto è necessario all’assistenza; fatta, questa raccolta, dalle aderenti ai gruppi .. b) Propaganda mediante stampa e conferenze. c) Organizzazione di manifestazioni di massa
Per il 2 punto: a) favorire le associazioni femminili spontanee nell’interno dei ◦ Gruppi > stessi. b) stampa su problemi specifici femminili. c) discussione in collettivo. Per il terzo punto: Concretizzazione della soluzione dal basso dei problemi femminili sia morali che materiali.
Centro studi provinciale dei Gruppi di Difesa della Donna >
La novità più importante è senza dubbio inquadrare le attività in una solida cornice pedagogica. I Gdd mirano a coinvolgere le donne a partire da ciò che sono abituate a fare, e a pensare di essere – madri e mogli e comunque creature destinate alla cura degli altri – con l’obiettivo di farle partecipare non solo attivamente, ma coscientemente alla Resistenza – recita il primo punto del manifesto. Nei Gruppi, le donne imparano quali sono i loro diritti e acquisiscono strumenti nuovi per leggere la realtà, perché il loro obiettivo finale trascende la guerra in corso: vogliono costruire una società più giusta – anche per se stesse. La piattaforma delle rivendicazioni (da ottenere attraverso una < soluzione democratica progressiva>, perché anche le comuniste, come i loro compagni hanno messo da parte la rivoluzione in nome della sacra unione antifascista) è chiara: parità giuridica, politica ed economica. Alleluja!
Le attività di supporto
Ma a far la parte del leone sono le attività di supporto e < assistenza>, appunto, alla guerra partigiana. Procurare il cibo, innanzitutto – cosa sempre più difficile, soprattutto nelle città. E le armi, naturalmente. E poi medicine, siringhe, garze, scarponi, cucchiai, coperte: oggetti <scontati nella vita precedente che sul finire della guerra sono introvabili. Le donne si mobilitano e s’ingegnano per mettere insieme tutto ciò che serve e farlo arrivare a chi ne ha bisogno, ovunque si trovi, dagli anfratti delle valli alpine alle paludi del delta del Po, alle periferie urbane: un’impresa titanica, in tempi di razionamento, per di più senza farsi scoprire. Persino un carretto dei gelati allora può diventare il mezzo di trasporto perfetto per una partita di fucili. Altrove, invece, si continua con mezzi antichi come le gerle.
La sorellanza
Tra donne, la timidezza e la soggezione vengono meno più facilmente. Questo rende l’attività di proselitismo e formazione politica svolta dai Gruppi di difesa particolarmente efficace. Tanti anni dopo, Marisa Ombra ricorda ancora con emozione uno dei tanti momenti dedicati a quel compito fondamentale: <Erano riunite intorno a un tavolo, in una calda cucina contadina, una ventina di donne. Immaginiamole per un istante: cresciute nel fascismo, conoscevano poche parole all’infuori di quelle che si pronunciavano in famiglia: credere, obbedire, combattere Quelle che stavano scritte sui muri delle case. Non ricordo che cosa dissi. Ricordo invece, come fosse ieri, l’ atmosfera di attenzione, quasi di rivelazione, che aleggiava in quella cucina: come l’attesa di un nuovo mondo che sarebbe stato svelato. Si scaricarono su di me domande importanti, ancora oggi: finito il fascismo, verrà la democrazia. Cos’è la democrazia? Cosa sono i partiti? Come si fa a distinguerli uno dall’altro? Come si fa a votare? Anche noi donne potremo votare? >
La sorellanza diventa fondamentale. Mi parla di questo Ia foto bellissima che ritrae Reginalda Santacroce (la prima a destra) con Assunta Versino e la sua sorellina Marcella, tutte e tre staffette delle formazioni autonome della val Sangone, tra le Alpi del Piemonte Occidentale; il modo in cui sorridono, ritte nel vento davanti a un infinito orizzonte che possiamo solo immaginare
Vengono in mente certi manifesti della propaganda socialista, le compagne rivolte al radioso sol dell’avvenire ma per loro era vita vera, un’esperienza reale, elettrizzante, immensa.
Imparare che grazie al confronto e allo scambio si può crescere insieme, facendosi forza a vicenda, esultando senza invidia dei successi delle altre come fossero propri Nell’affetto e nell’esperienza di condivisione si forma una famiglia nuova, molto più vera di quella del sangue, per chi non ha il dono di vivere un legame come quello tra Assunta e Marcella.
Le armi
Portare le armi è l’unica cosa che pone le donne immediatamente alla pari con i compagni partigiani. All’epoca dei fatti e per molti anni a venire, nel discorso pubblico e anche nelle ricostruzioni storiche, la vera Resistenza fu infatti solo quella armata. Servivano un certo numero di azioni militari per vedersi riconosciuta la qualifica di <partigiano combattente> Probabilmente è per favorire il riconoscimento del contributo femminile alla lotta che, sin dai primi giorni dopo la Liberazione, si cerca di costruire un repertorio d’immagini di donne in armi da consegnare all’immaginario collettivo.
Questa è senz’altro una delle fotografie più famose associate alla Resistenza delle donne. Mostra tre giovani partigiane col fucile, seguite da tre uomini; appartengono a diverse classi sociali come segnala il loro abbigliamento.
Armate e disarmate, in gonna e pantaloni, tutte insieme. Chi rompe i codici, chi li reinventa, chi se li tiene stretti. Ognuna ha declinato l’impegno nella Resistenza a modo proprio. Per celebrare il loro primo anno di vita, nel dicembre 1944, i Gruppi di difesa della donna si complimentano con le proprie aderenti attraverso uno dei propri giornali clandestini: <tutte>, scrivono <sono state individualmente delle ottime combattenti e hanno fatto sentire la loro forza partecipando a tutte le battaglie combattute dal popolo italiano per la sua liberazione> – usando non casualmente una terminologia militare per rendere omaggio a tutti i contributi, armati e non.
Varda che roba, sembrano dire, beccatevi questo: mitra e mattarello (foto di apertura). Siamo tutto insieme e anche di più. L’ha detto meravigliosamente Marisa Ombra: che si cucinasse, si cucissero divise, si sparasse o si tenessero i collegamenti, <avevamo fatto il gran salto materiale, dalla ordinata vita quotidiana in famiglia a quella spericolata e massimamente incerta della guerra. Dalla tradizione della ragazza in attesa di marito alla trasgressiva esistenza in mezzo a bande di ragazzi in guerra. In guerra noi stesse. […] Una sconfinata libertà stava davanti a noi e il nostro entusiasmo, la nostra ingenuità ci conducevano verso fantasie in cui altri mondi, altri rapporti, altri sensi da dare alla vita ci apparivano come certezze. […] C’era stato il capovolgimento del nostro mondo>
L’amore
Il mito della presunta assoluta castità che regnava nelle formazioni partigiane viene demistificato pubblicamente da Bianca Guidetti Serra nell’intervento a un convegno del 1995. Intervistata qualche tempo dopo da alcune studiose, ribadisce il punto con brutale sincerità: Si faceva o non si faceva all’amore? <Si faceva l’ amore, molto! Ed è questo il discorso, che tutti parlano come se fossero degli asessuati i combattenti e le combattenti>. Oltre essere stufa della reticenza, si vuole levare qualche sassolino dalla scarpa: , aggiunge, sferzante, < Questo lo dico soprattutto per il movimento femminista che è venuto dopo>, aggiunge, sferzante, che diceva – facendo un salto di vent’anni – che avevano scoperto tutto loro. Invece dimenticavano che forse qualche esperienza la si era fatta>.
La necessità di raccontare
Comincia allora il lungo, lento cammino che riporta alla luce la Resistenza delle donne, quella vera – ruvida, febbrile e contraddittoria com’è sempre la vita. Un’appassionante avventura storiografica e insieme, per le protagoniste, una faccenda molto personale. Perché trovare la propria voce, talvolta, è una questione di vita o di morte.
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Ho scelto di riportare alcuni brani del testo volutamente per far comprendere l’ampiezza e l’efficacia di questo lavoro. Non è una raccolta di fonti ma una magnifica rielaborazione storica e giornalistica piena di passione. Passione che ti trasporta attraverso quei momenti cruciali per la storia del nostro Paese, con uno sguardo di donna fiero e coraggioso, troppo spesso taciuto o citato in sordina. Benedetta Tobagi riesce a cogliere l’energia e lo spessore politico e umano di queste resistenti. Il racconto è equilibrato, duro, mai stereotipato o parziale: sembra corale insieme alle donne che hanno fatto la Resistenza. Parla al presente, parla di noi.
Un testo necessario per ripercorrere un percorso e un periodo intensi. La paura, la fatica, la solitudine, i sospetti, gli interrogatori, le torture, il carcere, i sabotaggi, le Volontarie della libertà, la tensione costante, i pregiudizi che hanno accompagnato queste donne. “Per reggere bisogna farsi dure, mettere un tappo alle emozioni” spiega Teresa Vergalli.
Donne che hanno combattuto e demolito tabù, pregiudizi, etichette e stereotipi. Scorrono veloci le pagine appassionate e fitte di aneddoti come i racconti raccolti dall’autrice. Un punto di sintesi di tante fonti e di tante voci che negli anni hanno raccontato quelle sfide.
Un racconto corale dicevo da fare leggere in classe, qualcosa che vale più di tante pagine di storia di una lezione frontale. Un documento da adottare nelle scuole e da far leggere precocemente, prima che si sedimenti la polvere dei pregiudizi.
Un saggio su cui discutere e confrontarsi in ogni luogo. Perché è grazie anche a queste donne che possiamo festeggiare la libertà e la liberazione dal nazifascismo. Una libertà che per le donne avrà un significato nuovo, fatto di una consapevolezza nuova, buona anche per oggi. Oggi che ci si illude di una emancipazione piena, ma che tale non è. Abbiamo tante testimonianze solide alle quali ispirarci. Un impegno politico sano e corposo, incarnato dalle partigiane e da tutte le donne che in vario modo presero parte e scelsero da che parte stare.
La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi è dedicato < A tutte le antenate >: se fosse una mappa, alla fine ci sarebbe un grosso < Voi siete qui>. Insieme alle domande: E tu, ora, cosa farai? Come raccoglierai questa eredità? Un ponte intergenerazionale sul quale fondare il nostro impegno politico e fornire nuove forze alla lotta di liberazione delle donne. Una vera rivoluzione questo simbolo e materia che ha dato nuova esistenza e nuovi orizzonti. Una narrazione che recupera e dà rilievo alle pagine strappate o sminuite, deformate negli anni, che vanno restituite e donate nel loro immenso valore alle nuove generazioni. Per parlare delle donne che fecero la Resistenza e che per la maggior parte vennero dimenticate e ricacciate in casa, nel ghetto del privato, una volta finita la guerra. La Resistenza delle donne è una pagina di storia che merita il primo piano e viene riportata alla luce alla portata di tutti e tutte grazie a opere come questa, orientate al futuro e a costruire memoria attiva. Non possiamo lasciar scivolare via tutte le azioni e le opere portate avanti da queste donne coraggiose. Un recupero iniziato negli anni Settanta, proprio durante la nuova ondata femminista, dando spazio alle protagoniste partigiane. Non sempre ci fu comprensione intergenerazionale.
Si respira aria di movimento collettivo che per anni è stato misconosciuto e sottovalutato.
A noi il compito di trasferire la passione che traspare da queste pagine e di prendere parte alla vita sociale, politica ed economica esattamente nel solco delle nostre antenate. Non è dedicato solo alle nostre antenate ma anche a tutte le generazioni di donne che dovranno portare avanti i valori della Resistenza, perché quella libertà non è mai da considerarsi pienamente raggiunta una volta per tutte. Siamo ancora in cammino per eliminare ostacoli, pregiudizi e stereotipi che ci bloccano tuttora.
<Ognuno di noi fu esattamente un giovane (…) stretto fra dubbi e paure, convinto di non fare nulla di così eccezionale, di “storico”, ma di compiere un dovere civile.>
<E’ solo la spettacolarità della vicenda che ci illude sul valore di quella prova, credimi>, scrive Carla, a Betta e a noi, <Ogni atto della nostra vita richiede prontezza, decisione, impegno, volontà, determinazione, ma soprattutto “cuore”, e anche un poco di fortuna, che consiste in quell’insieme di fatti coincidenti che ti aiutano, Se riesci a vincere l’indolenza e la sfiducia in te stessa. […] Non siamo mostri di perfezione, siamo solo uomini e donne che di fronte alla durezza delle situazioni non si sono abbandonati al pianto nascosti per la paura ma hanno reagito, alzato la testa. E, credimi, eravamo tanti>. E’ vero. In un senso profondo anche se erano pochi, erano tanti.
La gappista Carla Capponi