regia di Halfdan Ullmann Tendel
con Renate Reinsve, Ellen Dorrit Petersen, Endre Hellestveit
Una situazione che nessuno si potrebbe aspettare e che al giorno d’oggi, in tempi di politicamente corretto, può diventare esplosiva sta al centro del primo lungometraggio di Halfdan Ullmann Tendel, che ha alle spalle due nonni impegnativi, Liv Ullmann e Ingmar Bergman, genitori di Linn Ullmann, sua madre.
Avrebbe potuto essere intimidito dalla genealogia, invece sembra che ne abbia assorbito solo i lati positivi, visto che i suoi primi cortometraggi (ha 34 anni) sono stati apprezzati e premiati e che Armand è stato scelto per rappresentare la Norvegia agli Oscar 2025.
Al centro del film c’è un fatto disturbante: la presunta molestia nei bagni dell’istituto di un alunno di sei anni, Armand, ai danni di Jon, un coetaneo, dove alle azioni si sarebbero affiancate anche espressioni inappropriate che il vocabolario di un bambino così piccolo non dovrebbe contenere. Espressioni che potrebbe avere imparato dal lessico familiare, una circostanza che rende tutto ancora più delicato.
Si è alla vigilia delle vacanze e i dirigenti scolastici cercano di affrontare la questione, attenti a tutte le implicazioni: i loro doveri, i protocolli dell’istituzione, il ruolo delle famiglie, la tutela dei minori, la privacy, in un contesto, la Norvegia, dove a tutti questi elementi si presta la massima attenzione e dove tutto è previsto. Ma non un accadimento estremo come questo.
Il regista conosce bene l’ambiente, perché ha avuto esperienze come insegnante proprio nella scuola elementare ed è stato sempre attento a tutto quanto riguarda il mondo della prima infanzia.
Il film non sceglie la strada del piatto realismo e neppure quella del documentario di denuncia ma si lancia lungo percorsi psicologici, cinematografici e stilistici alti. Si respira un’aria di famiglia (tantissimi primi piani, come nei film di Bergman) ma anche citazioni colte, perché spesso si pensa a Luis Buñuel (e non a Carnage di Polanski come la storia potrebbe far pensare).
Il film si apre con la convocazione dei genitori dei bambini, alla presenza della maestra e dei dirigenti e tutto fin da subito appare incerto, sia per le titubanze del personale scolastico sia per la reticenza e incredulità dei genitori.
La maestra fatica a raccontare, il dirigente esita a tastare il terreno per capire eventuali problemi famigliari, i genitori, la madre e il padre del bimbo “vittima” e la madre vedova del bimbo “abusante” sono via via titubanti e poi aggressivi, scettici e poi torrenziali nel racconto, in cui si rovesciano addosso accuse reciproche.
Dicono, ma forse mentono e lo fanno sia sapendolo sia convinti che la loro testimonianza corrisponda alla verità.
Un giro sull’ottovolante dell’intimità delle famiglie, sui segreti che man mano affiorano e che hanno contorni sfumati perché quello che manca fino alla fine è la verità. Che cosa sia poi la verità davvero, sembra chiedersi il regista, forse è impossibile circoscriverlo con certezza.
Un dramma a porte chiuse che ha come fondale la scuola vuota, un edificio che privato degli alunni si colora di aspetti inquietanti, come se anche i muri nascondessero segreti, un gioco al massacro che fa emergere ossessioni e follie, dove gli equilibri si sfaldano e dove su tutti domina Renata Reinsve nel ruolo della madre del bimbo presunto molestatore.
È lei la più vibrante, la più cangiante, la più colpevole e la più innocente, è lei a perdere per prima il controllo in una scena in cui, in mezzo al dramma, inizia istericamente a ridere. E la macchina da presa non smette di filmarla, trasmettendo allo spettatore un’angoscia crescente perché anche noi in platea non sappiamo più a chi credere e quella lunga sequenza sembra girata apposta per farci prendere posizione.
Ma non sappiamo da che parte stare, non sappiamo più cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa vero e cosa falso ed è come se la ricerca della verità venisse continuamente interrotta come nella cena che mai inizia nel buñuelinano Il fascino discreto della borghesia.
Da questa scena il film abbandona del tutto il realismo per concedersi sequenze oniriche e pittoriche che fanno pensare a Pina Bausch, alla danza contemporanea, a certi dipinti di David Hockney, alle solitudini di Hopper, nel tentativo, ma è impossibile ci dice il regista, di ripercorrere i traumi degli adulti, perché tutto si origina dal passato. I bambini, l’evento incriminato, la “verità” sembrano solo appendici di qualcosa di ben più profondo e insondabile.
Insomma, ci troviamo di fronte a un film sofisticato che segna la nascita di un sicuro talento e che, con intelligenza, pone domande ma non ha la presunzione di fornire anche le risposte.