Da Dol’s mi è giunta la domanda: “Cosa proverà davvero e come starà realmente Cecilia Sala dopo il suo insperato ritorno a casa?”, ho deciso di ascoltare il suo podcast e particolarmente l’intervista rilasciata a Mario Calabresi, per connettermi profondamente, al di là delle parole, con cosa mi trasmetteva il suo racconto per dare risposta al quesito posto.
Durante la ricerca del contenuto ripensavo al dilemma che mi strinse dai primi giorni della detenzione della giovane giornalista per cui provai una forte tensione a parlarne pur coltivando un grande interesse per le tematiche da lei affrontate occupandomi da tanti anni di promozione dell’emancipazione femminile nonché della prevenzione e contrasto della violenza di genere.
Il pericolo che correva e le difficoltà che avrebbe incontrato nella carcerazione in un paese come l’Iran, mi hanno trattenuta in un silenzio preoccupato, rispettoso e speranzoso insieme che ho sentito come validato quando la famiglia stessa ha richiesto, a motivo della delicatezza della situazione, il silenzio stampa.
Ciò che mi colpisce nell’intervista è il racconto della privazione della libertà e di una detenzione molto dura da parte di una donna ancor prima della giornalista che ha vissuto dal primo momento con lo sgomento di chi sa che la propria incolumità fisica ed integrità mentale sono a rischio e con l’angosciante incognita su come, se e quando sarebbe riuscita ad uscire da quello stato di minaccia.
E’ questa una condizione che provoca tipicamente in chi l’ha vissuta l’insorgere di una sintomatologia da stress post traumatico che va trattata tempestivamente.
L’elemento su cui vorrei soffermarmi, perché urente, nel discorso di Cecilia Sala, è il senso di colpa per aver lasciato in quel carcere la compagna di sventura che divideva la cella con lei, descrivendo un vissuto doloroso caratteristico che è stato ben rappresentato da quella che nella letteratura scientifica viene chiamata “sindrome del sopravvissuto”.
La persona che la sperimenta soffre nel vivere quella che percepisce come una condizione fortunata, di privilegio immeritato rispetto all’altro, che diversamente da lei non può emergere dalla situazione traumatica.
Questo si coglie chiaramente nelle sue parole “Il senso di colpa dei fortunati lo sento un po’ in questo momento”, ma è trasmesso con immediatezza potente dalla voce della giornalista, che si incrina proprio in quel punto dell’intervista in cui parla dell’altra giovane donna, Farzaneh, con cui ha condiviso, dopo l’isolamento, il peso della prigionia, l’assenza di qualunque comfort come un semplice giaciglio, ma anche gli abbracci e la sfrontatezza rivoluzionaria di un sorriso, persino di uno scherzo accennato su di un piccolo, buffo messaggero della vastità del cielo: un uccellino.
Certamente questo di Cecilia Sala è un vissuto che andrà elaborato con un aiuto qualificato che non dubito stia già ricevendo; per questo vorrei concludere il mio scritto con un pensiero per lei che si concentra sul concetto di privilegio associato allo status di sopravvissuto, che proprio per il suo ruolo nell’informazione si declina in opportunità concretizzandosi in dono.
Opportunità, perché lei è portatrice di una testimonianza che darà voce a tutte le altre donne ancora detenute e dono, perché dal suo racconto germoglierà una consapevolezza maggiore ed al contempo inevitabilmente diversa circa la condizione della donna in Iran letta attraverso l’esperienza di una giovane professionista occidentale.
Infatti, il dramma di chi ordinariamente vive una prigionia come quella nel carcere di Evin si riassume nelle parole di Luis Sepulveda nel libro Le rose di Atacama: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.
Nelle donne imprigionate ed oppresse che ha conosciuto prima della detenzione, ma soprattutto nel cuore della compagna di cella e di sventura, Farzaneh, riluce ora una certezza: Cecilia Sala è stata qui e parlerà di noi e della nostra condizione, che in parte è stata anche la sua.