regia di James Mangold
con Timothée Chalamet, Edward Norton, Elle Fanning, Monica Barbara
nelle sale dal 23 gennaio
Gli accordi? Li ha imparati dai cow boy del circo con cui ha viaggiato per un po’. Il passato? Non esiste. Il futuro? Lo inventerà lui. Bob Dylan è solo Bob Dylan, niente prima e dopo solo il diluvio. La scelta di James Mangold per raccontare uno degli artisti più grandi degli ultimi decenni ruota tutta intorno al fascino carismatico e alla immensa bravura di Timothée Chalamet che si trasforma sullo schermo in Bob Dylan anche se, dice, di non averlo mai incontrato. Pare che gli abbia solo fatto arrivare da lontano la sua benedizione: non si sa se si sia riconosciuto, di certo si è piaciuto.
Timothée è luminoso fin dalla prima inquadratura, giovane eroe solitario on the road con una sacca e una chitarra che vuole conoscere il suo eroe, Woody Guthrie ricoverato in ospedale, minato dalla malattia di Huntington. Al capezzale del cantante folk c’è il suo amico Pete Seeger. Tutti e due sono conquistati dall’enigmatico ventenne appena prende in mano la chitarra. “Bobby” tornerà a New York con Pete che gli presenterà fra gli altri Albert Grossman, uno dei più grandi manager dell’epoca.
Il talento del ragazzo del Minnesota è così travolgente da aprirgli tutte le porte, senza che lui faccia sforzi per ottenere benevolenza. Anzi, resta avvolto nel suo mistero, dove c’è posto solo per la sua ossessione per la musica. Scrive, ricerca, suona, canta, anche di notte, anche se nel suo letto c’è una ragazza con cui ha appena fatto l’amore.
Niente può distrarlo dal suo destino: diventare il più grande dei musicisti.
Gli basta la musica per entrare nel mondo e nel cuore delle persone, non ha bisogno di altro. Il suo talento è così dirompente che conquista tutti. La sua sfacciataggine, il suo rifiuto di farsi incasellare, la sua insofferenza per il successo non sono ostacoli, ma caratteristiche che ne delineano la personalità.
Il film di Mangold è lontano mille miglia da quello quasi sperimentale di Todd Haynes, Io non sono qui, dove l’imprendibile Bob Dylan era interpretato da più attori, compresa Cate Blanchett. Qui ci si muove su un terreno più tradizionale ma non è una piatta biografia, non è una pagina di Wikipedia, come ha detto il regista aio suoi attori. E’ piuttosto una favola moderna che racconta la potenza del talento, la forza dell’ossessione e il cuore di un mito.
Ci sono personaggi inventati (come Sylvie Russo, pittrice, il primo amore) e altri reali, come Joan Baez (bravissima Monica Barbaro) che ha vissuto con Dylan una storia passionale e impossibile in cui si scontravano due personalità esplosive. E c’è la scena musicale newyorkese degli anni 60, il Chelsea hotel, i locali folk, la storia, Kennedy e Malcom X e l’impegno politico.
Ma c’è soprattutto lui, Bob Dylan, unico, al di là di tutto e di tutti. Il film termina col Newport Folk festival, dell’estate del 1965, un’istituzione della musica americana. Ancora una volta, contro tutto e contro tutti, Dylan fa di testa sua e a chi gli chiedeva il paludato folk e i vecchi successi risponde attaccando la chitarra elettrica a un amplificatore, accompagnato a una rock band. Un’eresia. Ma dopo i primi prevedibili fischi, che lo lasciano imperturbato, alla fine vince lui perché il pubblico esplode in un applauso senza fine. Che l’artista neppure si gode perché scende sul palco, sale sulla sua Triumph e accende il motore.
Il mistero Bob Dylan, il ragazzo venuto dal nulla e arrivato al Nobel (che non è andato a ritirare) resta inscalfito, il mito di Timothéé Chalamet prosegue. E chissà se per lui è già Oscar.