Rebecca Agnes (Pavia, 1978), artista visiva, lavora tra Milano e Berlino. Ci siamo incontratɜ in un
bar di fronte alla statua di Rachele Bianchi (una delle pochissime* statue dedicate a donne a Milano)
*Presenti nello spazio pubblico e commissionate dalla città di Milano ci sono solo due statue dedicate a donne, poche altre devono la loro presenza ad iniziative private, come la donazione da parte dellɜ eredi di Rachele Bianche della statua suddetta, che comunque è un’allegoria, non una persona reale
Vorremmo iniziare questa intervista facendoti raccontare di una tua opera che ci ha colpito, Dear
humans, kindly leave this area to other species / Cari esseri umani, lasciate gentilmente questa area
ad altre specie un lavoro che chiede di fatto di non fare nulla. Forse non è l’opera che rappresenta
meglio la tipologia di lavori che produci (è probabilmente il più “effimero”), ma allo stesso tempo
sembra parlarci molto di te…
Penso che alla fine ogni mio lavoro sia rappresentativo di quello che faccio e come vedo il mondo.
Per me l’arte è come un linguaggio (che procede per immagini invece che per parole) che serve ad
interrogare il reale e ciò che ci circonda. La mia pratica artistica è profondamente connessa alla mia
vita ed al mio agire umano e politico. Il progetto Cari esseri umani, lasciate gentilmente questa area
ad altre specie è stata la risposta all’invito di Giorgos Papadatos e Counterpublics nel 2021 di
produrre nelle zone liminali della città di Atene un intervento artistico. In quell’occasione ho deciso di
inviare una cartolina ai miei contatti presenti sul territorio con le coordinate del luogo in cui avrei
dovuto realizzare quest’opera, chiedendo loro di portare una bacinella d’acqua per gli uccellini e
nient’altro. Rispettare sostanzialmente quel territorio e l’ecosistema che lo struttura. La cartolina
rappresentava la scuola di Atene, con uccelli antropomorfi al posto delle classiche figure maschili.
Ho conosciuto Papadatos nella prima residenza internazionale d’artista a cui ho partecipato al Centre
International d’Accueil et d’Echanges des Récollets di Parigi, appena uscitə dall’Accademia. È un
contesto che mi è servito molto per stringere rapporti importanti e duraturi come questo, ma anche per
respirare un’aria più internazionale.
La tua pratica artistica è caratterizzata da un approccio collettivo e collaborativo, come ci hai appena
raccontato. Quali sono le luci e le ombre di questo processo? Hai trovato nei tuoi lunghi viaggi e
intersezioni una comunità elettiva?
Questa pratica di condivisione per me è nata in modo molto naturale, sin dall’Accademia ho chiesto
ad altre persone o artistɜ di fare delle cose per me, in genere disegnare. Queste cose poi si capiscono retroattivamente, ma già sentivo di voler andare oltre ad una eccessiva centralità dell*artista. Benché non fossimo troppo distanti temporalmente da una serie di movimenti politici che avevano criticato una prospettiva capitalista ed individualista, purtroppo a partire dagli anni ´80 e poi nei ´90 si è ri- centrato (perlomeno nella scena milanese che conosco) un sistema che oltre che edonistico, ri- collocava il fare arte in una modalità estremamente individualista (con eccezioni ovviamente).
Negli anni mi ha sempre accompagnatǝ e mi è interessatǝ invece una visione piú collettiva del processo artistico. Credo che questo processo collettivo non debba coinvolgere però solo artistɜ ma anche persone che si occupano di altro. Ad esempio ho un ricordo molto bello di quando sono stata a Scicli per una residenza, in quell’occasione volevo rappresentare una mappa dei luoghi della Sicilia che non esistono più, inaccessibili, in rovina o non finiti. Pian piano nella cittadina si è sparsa la voce che c’era un*artista che chiedeva alle persone di disegnare suddetti luoghi scomparsi e si è creato un grande interesse a riguardo, tanto che l’arte era divenuta un pretesto per conoscersi, parlare e condividere i propri ricordi. Ecco in questo senso penso che l*artista possa essere unə facilitatorə per la costruzione della socialità.
I materiali che utilizzi nei tuoi lavori (carta, tessuto) si ricollegano ad una tradizione femminile e
femminista dell’arte (che fortunatamente, come abbiamo potuto vedere anche dalle ultime due
Biennali, sono stati rivalutati). Da che cosa deriva questa tua scelta di utilizzarli? Hanno un valore
politico o sono dei materiali che ti hanno attratto per le loro qualità estetiche e di manipolazione?
I materiali dei miei lavori derivano da una scelta politica e questo lo si vede anche dal modo in cui li
utilizzo. Per esempio non seguo le regole classiche del ricamo che impongono che il fronte sia uguale
al retro, imprigionando questa pratica all’interno di regole di esecuzione ben precise. Nei miei ricami
lascio i fili del retro lunghi, intrecciati e ben visibili, per mostrare chiaramente la reinterpretazione di
questa tecnica e le sue possibilità sovversive. In più ciò che viene ricamato sul tessuto ha una grande
resistenza e persistenza nel tempo. Si tratta poi di una tecnica generalmente considerata minore,
perché prevalentemente e tradizionalmente praticata da donne. Per quanto riguarda i disegni che
ricamo su stoffa sono spesso realizzati da altre persone, seguendo istruzioni precise rispetto al
concetto del lavoro.
Quali problemi si trova oggi un*artista ad affrontare in Italia?
Innanzitutto fare l*artista non è riconosciuto come professione e questo lo si vede da moltissime cose, come l’assenza di un tariffario, che dia un valore a quelle ore invisibili che stanno dietro la produzione di un lavoro o una mostra, o un sindacato forte (al momento ci sono tentativi di costruirlo). Anche per quanto riguarda la fiscalità c’è poca chiarezza, spesso non viene distinto il compenso dell*artista dai soldi destinati alla produzione dell’opera il che comporta dover pagare delle tasse su qualcosa che non si guadagna effettivamente.
Un’altra problematica è che in Italia c’è poca attenzione all’arte contemporanea, si tende a investire i fondi pubblici per sostenere principalmente l’arte legata al passato e non si fa educazione in questo senso nelle scuole. Purtroppo questo fa sì che poi non si riesca a suscitare l’interesse del grande pubblico, che piuttosto viene indirizzato verso l’ennesima grande mostra sull’Impressionismo. È complicato in Italia riuscire a fare l*artista se sei unǝ mid- career, se hai un’attività avviata, hai esposto ed esponi, ma non hai una galleria privata che vende le tue opere, non c’è sostegno economico ed è quindi più difficile fare il tuo lavoro.
Le mappe sono un simbolo forte che riproponi spesso nei tuoi lavori, sto pensando a La città di chi?,
in cui hai fatto un lavoro di ricognizione toponomastica (disegnato delle grandi mappe di Milano e
indicando a chi sono intitolate le strade e monumenti) o Luoghi che non esistono più di Milano, ma
anche l’ultima camminata performativa di questo autunno Sputiamo su Ludovico dedicato alle donne
assassinate per stregoneria. Puoi raccontarci come è nato questo tuo interesse?
Mi interrogo da sempre sugli spazi pubblici, quanto siano davvero pubblici, chi dà loro un nome,
quale nome, chi li attraversa: così nel tempo mi sono trovata a fare queste mappature in negativo della
città. Una città visitabile solo attraverso la memoria e i racconti di chi la abitava, perché
materialmente scomparsa o inaccessibile. Da qui ho iniziato ad interessarmi alla toponomastica, anche
grazie al lavoro di Toponomastica femminile. La prima statua dedicata ad una donna a Milano (e attenzione, è stata fatta solo nel 2021) è quella di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, figura importante del Risorgimento italiano, nobildonna, patriota, giornalista e scrittrice, ma che si rifà comunque ad una idea precisa ed esclusiva di nazione e mi chiedo quanto essa possa parlare oggi a persone giovani con biografie complesse? Di statue dedicate a donne attualmente a Milano ce ne sono pochissime e purtroppo la situazione non migliora significativamente per quanto riguarda i nomi delle strade, di cui solo circa il 3-4% è intitolato a donne. E comunque rimane aperta la domanda, come rappresentare chi non si riconosce nel binarismo di genere?
Quando poi mi sono spostata a Berlino nel 2006, ho avuto occasione di guardare questo fenomeno con occhio più critico, visto che nella città di Berlino sono presenti dei movimenti che dal basso cercano di modificare toponimi che rispetto specialmente a discorsi anti-razzista e anti-colonialista sono problematici, proponendone la ri-nominazione. Alcuni hanno avuto successo, ma tanto ancora ci sarebbe da fare. Questo tipo di discorsi in Italia sono più recenti, se ne è iniziato a parlare, ma principalmente nell´attivismo mi pare.
Quali sono le tue prossime mostre in programma e quali piani hai per il futuro?
Sono qui a Milano solo di passaggio perché ho in programma di partire per una residenza artistica che è alla sua prima edizione e si chiama Ideal City. Si trova in Veneto, nella città ideale di Avisopoli ed è curata dal duo di artistɜ Penzo+Fiore con Sistema 3.
Nell’occasione presenterò Table of Contents #2, un’installazione interattiva che invita a discutere di architettura utopica e possibili coabitazioni con le specie non umane che abitano le nostre città. Interattiva nel senso che le persone sono invitate a conversare su queste tematiche attorno al tavolo stesso e a lasciare poi una traccia delle loro riflessioni. Il 10 aprile presenterò invece in collaborazione con Final Girls Berlin Film Festival di
Berlino e Visualcontainer, il progetto A Trilogy of Horror, che consiste in 3 ricami su come diverse
persone immaginano streghe, fantasmi e mostri.
L’ intervista è stata prodotta in collaborazione con l’art curator Elena Bray.
Elena Bray (Torino, 1994) è una curatrice indipendente di base a Milano. Si è laureata in Filosofia Magistrale all’Università degli Studi di Torino con una tesi in Estetica del Brutto e ha successivamente conseguito un master in Management dei Beni culturali alla 24Ore Business School di Roma. Da tre anni sviluppa progetti espositivi ed editoriali con artisti in spazi di ricerca, tra cui la mostra di Rebecca Moccia da CRIPTA747 (Torino, 2024), di Giuseppe Abate a Manifattura Tabacchi (Firenze, 2023), di Alice Faloretti da Mucho Mas! Artist-run-space (Torino, 2022), e la collettiva finale del ciclo di residenza di Via-Farini-in-Residence (Milano, 2022).