regia di Drew Hancock
con Sophie Thatcher, Jack Quaid, Lukas Gage, Megan Suri, Harvey Guillén, Rupert Friend
Un’auto, una coppia, una strada che si snoda nel verde, una bellissima villa dalle ampie vetrate affacciata su una vallata incontaminata con vita su un lago. Un week end fra amici, un fine settimana come tanti. Nella villa due coppie accolgono i nuovi arrivati, una donna e un uomo e due uomini innamoratissimi. Si ha però la sensazione che qualcosa non funzioni, c’è un che di forzato nei dialoghi e qualcosa di artificioso nei visi. Come se tutto stesse e dovesse andare troppo bene. I rapporti sono meccanici, le tensioni si allentano presto, in modo innaturale.
Lo spettatore scoprirà presto che la sua impressione era giusta perché in quel gruppo di amici ci sono due robot. Due replicanti, li avrebbe definiti Philip K. Dick e in effetti Companion potrebbe essere un Blade Runner 2.0, una vicenda che mette a fuoco le regole fra umani e robot, aggiornandole all’epoca dei social e della App.
Difficile continuare a raccontare la storia senza svelare troppo, rischiando quindi di rovinare la visione di questo film che sta in bilico fra commedia romantica, horror e cybor-fantascienza.
E forse quella che viviamo come fantascienza è già in realtà in mezzo a noi, perché le invenzioni tecnologiche applicate ai robot, partner sentimentali e sessuali perfetti, fanno parte del mondo di oggi e il film non fa altro che esasperarne le potenzialità, calcando la mano sugli aspetti più paradossali che però non sono i più improbabili.
Ecco perché è impossibile evitare di essere attraversati da una certa inquietudine fino alla fine del film (già in odore di sequel) e si fa fatica a schierarsi, perché i replicanti sembrano migliori di noi.
Film interessante con uno sfondo di cybor-etica, con ottimi attori (il protagonista è il figlio di Dennis Quaid) , un film che ci spinge a interrogarci sul futuro e sul potere (e i guasti) della tecnologia. E dell’ubris umana.