regia di Brady Corbet
con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy
nelle sale dal 6 febbraio
Un film ricco, troppo ricco. E lungo, troppo lungo. Uno strano oggetto cinematografico che può entusiasmare o irritare. In ogni caso un lavoro prezioso che vale la pena esaminare. Ambizioso, eccessivo, ideologico, un film-mondo in cui il regista costruisce una cattedrale di tesi per leggere l’universo. Molto, no? Affrontiamo dunque Brady Corbet che con il suo film contenderà qualche Oscar all’altro superfavorito, A complete unknown, l’incantevole film sul giovane Bob Dylan.
Anche in The brutalist abbiamo al centro un protagonista maschile, un architetto di punta della Bauhaus in Germania, un genio e sognatore. In fuga dal nazismo e dall’Europa del dopoguerra, sopravvissuto ai campi di concentramento, l’architetto visionario László Toth sbarca in America per costruirsi un futuro e farsi raggiungere nella terra delle opportunità dalla moglie Erzsébet. Agli inizi vivrà da un cugino che, completamente conquistato dal sogno americano, è arrivato anche a cambiarsi il nome: rinnegare le origini ebraiche significa per lui poter ricominciare senza zavorre. László non ci sta, non accetta nessun compromesso e vuole essere solo se stesso. Lavorando per il negozio di mobili del cugino propone i suoi oggetti, figli di quella architettura “brutalista” che guarda in particolar modo alla funzionalità di arredi e costruzioni, prediligendo linee rudi, essenziali.
Ovviamente non viene capito. Uomo mite, introverso, non lotta per affermarsi, si limita a fare quello che gli piace, quello che il fato gli propone. E se per sopravvivere gli tocca lavorare come operaio, non si opporrà. Finirà infatti con un mestiere povero, ma il suo purgatorio ha breve durata perché un mecenate, Harrison Le Van Buren, quint’essenza del capitalismo americano, si innamora del suo stile e gli dà carta bianca per un grandioso progetto: la costruzione di un mausoleo per ricordare la madre, un edificio polifunzionale che però dovrà ospitare anche una cappella cristiana. E László progetta, sogna, immagina, esalta i pieni e i vuoti, sfrutta i giochi della luce.
Il film fin dalle prime inquadratura mostra tutta la sua raffinatezza e ambizione, seguendo direi quasi con amore il suo antieroe (magnifico come sempre Adrien Brody), indirizzando l’obiettivo sui suoi meravigliosi progetti, sia quelli accolti con successo che quelli abortiti. E fino a metà film anche noi spettatori seguiamo le gesta di questo timido eroe che non cerca la gloria ma solo la materializzazione dei suoi sogni.
Inquadrature eleganti, uso del grandangolo, un’atmosfera che a tratti ricorda persino Quarto potere di Orson Welles con la sua apoteosi del capitalismo, vizi e virtù compresi. Speriamo che László possa ricongiungersi con la moglie, ci identifichiamo con i suoi sogni, ci emozioniamo ai suoi disegni, soffriamo quando scopriamo la sua dipendenza dalla morfina a cui aveva fatto ricorso per le ferite di guerra. Poi ecco che qualcosa si incrina e se all’inizio il rapporto fra László e Harrison, ovvero fra il capitalismo e l’arte, fra la ricchezza e il talento era interessante e fertile di risultati, all’improvviso la magica cattedrale crolla. Perché? Perché prevale l’ideologia, con una struttura a tesi che vuole dimostrare la ferocia egoista del Capitale che soffoca e “violenta” (persino in senso letterale) la libertà dell’artista. Il soldo uccide il talento.
E non riusciamo più (o almeno io non sono più riuscita) a amare il film. Continuiamo ad apprezzare la splendida recitazione, le sequenze acrobatiche, l’importante impegno produttivo ma quell’essere sedotti che ci aveva preso per mano nella prima parte del film si sfarina. E resta solo un’assurda, greve ideologia che con la sua brutalità spegne ogni entusiasmo. So però che sono molti i critici che hanno amato incondizionatamente il film, nello stesso modo in cui erano entusiasmati senza riserve per Megalopolis di Francis Ford Coppola. É vero che amiamo il grande cinema ed è meraviglioso quando il cinema è bigger than life. Ma a volte la grandiosità esplode come quando si gonfia a dismisura il pallone di una mongolfiera. Scoppia e, ahimé, non potrà più volare.