Inutile voler snobbare un film come “Follemente “ accusandolo di essere superficiale o troppo semplificativo rispetto alle umane relazioni.
Inutile perché, invece, Follemente è un film che arriva , facendo sorridere e pensare.
Svelando a chiunque di noi l’odierna complessità di voler seguire i copioni di aspettative nostre o di altri invece di essere, semplicemente e solamente, autentici.
Ci riusciamo? Mah.. probabilmente no senza avere la voglia di rischiare .
Cosi accade che per cento minuti nel film di Paolo Genovese ognuno di noi ritrova quelle parti di se imbranate, insicure , contrastate e contrastanti . Quegli aspetti che, anche se ci mostriamo al mondo sicuri e invincibili, conosciamo bene e, alla fine , è proprio per questo rispecchiarci che ci sorridiamo teneramente .
La trama ormai è nota.
Un gruppo di attori straordinari nella mente del protagonista Edoardo Leo e un gruppo straordinario di attrici nella mente di Pilar Fogliati .Ognuno rappresentante una modalità, un modo di relazionarci, di essere.
Troppo semplice? No se in questo ci rivediamo
No se in questo riviviamo moltissimo della complessità degli odierni rapporti uomo – donna.
Personalmente amo sempre tanto ascoltare le reazioni del pubblico in sala e , stavolta, era palese che ridessimo di più noi donne.
Ok magari certe donne neanche tutte, perché non è detto che il genere dia necessariamente il patentino della capacità dell’ironia, soprattutto verso noi stesse.
Ridevamo, però ,di più noi donne esclusivamente perché da sempre siamo più abituate a gestire, o non saper gestire, le nostre emozioni.
Più abituate a viverle barcamenandoci da sempre fra ruoli continuamente diversi, fra desideri completamente diversi . Amorevoli, disponibili, spontanee, romantiche certo se lo vogliamo ma , nello stesso tempo , sempre timorose che tutto questo sentimento possa sembrare debolezza, essere usato o manipolato per l’ esaudimento di bisogni o desideri di altri.
Abituate ad un esercitazione continua fra volontà e cuore, fra desiderio di mostrarci e o trattenerci per evitare ferite. Un training estenuante che ci ha rese manovratrici esperte di montagne russe fra emozione o ragione , per tener fede a quanto di acquisito non vorremmo perdere per apparite solide e risolte al mondo.
Ma…gli uomini? Gli uomini di oggi a tutto questo sono abituati?
Certamente dai trenta , trentacinque anni in su io non credo .
Vivendo, questi nostri un pò spaesati compagni di viaggio, un momento di passaggio fra le granitiche certezze del come essere maschi alla , finalmente , scoperta della possibilità di sdoganamento di incertezze , fragilità e paure onestamente mostrabili.
Certo non tutti e non sempre ma, se un film come questo di Genovese ha un valore, è proprio nella divulgazione semplice, ripeto, di questo mal-essere comune la sua forza.
Nel far vedere qualcosa che chiunque seduto in platea vive rendendo semplicemente tutti meno soli e con un sorriso . Perché, alla fine, è di solitudini che si racconta.
Di come evitarle se desideriamo altro o di come non sceglierle come via di fuga .
“Spegnere il cervello” ?Si prospetta come possibile soluzione alla fine del film.
Non penso basti se non insieme al provare ad essere più sinceri, più coraggiosi, più liberi ,più autenticamente noi stessi.
Imparando anche dalle nostre ferite, facendone risorse, mostrabili. Esattamente come ,in una scena del film i due protagonisti si mostrano le cicatrici dei grandi o piccoli infortuni avuti nella vita.
Quindi ben venga se grazie ad una sceneggiatura brillante, a degli attori straordinari e ad una idea, certo non nuova, ma resa in maniera divertente arriva il sentire comune di un’ era di smottamento di qualunque certezza comportamentale di genere rispetto alle emozioni e al come viverle.
Ma non spegniamo il cervello, usiamolo.
Magari insegnandogli meglio a passare, al bisogno e sinceramente, anche dal cuore.