Regia di Gabriele Mainetti
con Enrico Borello, Yaxi Liu, e con Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Chunyu Shanshan. Con la partecipazione di Luca Zingaretti
Soggetto e sceneggiatura di Stefano Bises, Gabriele Mainetti, Davide Serino
Una meraviglia quasi infantile, da spettatore puro, ti predispone fin dalle prime inquadrature, così inaspettate nel cinema italiano, abituato a muoversi troppo spesso fra l’ombelico e il tinello: siamo catapultati in un villaggio sperduto della Cina, negli anni Novanta. Un padre insegna le mosse del kung-fu alle due bambine. Ma sta arrivando qualcuno, così la madre nasconde una delle due. All’epoca nella terra di Mao vigeva la politica del figlio unico. Ma a volte, come recita la didascalia sullo schermo, l’amore vince su tutto.

Seconda inquadratura, un altro interno cinese. Ma a Roma. Una donna sta selezionando alcune ragazze, decidendo il loro futuro: prostituzione, massaggi, lavapiatti. Una di queste però si ribella a tutto, e, più atletica di Uma Thurman in Kill Bill, fa uno sfracello in quell’antro e ancor di più nella cucina sottostante, con scene d’azione più debitrici di Tarantino che non di Bruce Lee o del cinema orientale.

E siamo solo nei primi minuti del nuovo film, il terzo, del regista che già ci aveva stupito dieci anni fa con Lo chiamavano Jeeg Robot (rilettura dei supereroi nella Roma di oggi) e poi con il fosco Freaks out, un circo assediato dai nazisti nella Roma della guerra. Qui alza di nuovo, magnificamente, l’asticella e coniuga il cinema di kung-fu con il revenge movie, il genere gangster con il racconto sociale giocando anche la carta romantica con una citazione da Vacanze romane, in un limpido omaggio senza fronzoli alla bellezza della città eterna.

Mei, la tostissima ragazza che abbiamo visto combattere, è una delle due bambine delle prime inquadrature ed è a Roma in cerca della sorella. Le tracce l’hanno portata nel quartiere più multietnico della Capitale, l’Esquilino di piazza Vittorio, ricostruito come in una Blade Runner italiana. Piccolo e meschino ras del quartiere è Annibale (Marco Giallini), che sfrutta gli immigrati, facendoli lavorare e affittando loro le case. Intanto corteggia Lorena (Sabrina Ferilli) che gestisce con il figlio Marcello un ristorante. Il momento è giusto perché il marito dopo trent’anni di matrimonio l’ha lasciata per un’altra donna. Mei incontra Marcello e i loro destini si intrecciano in un puzzle senza sbavature che si snoda per tutto il film, fra momenti romantici e scene d’azione girate con grande professionalità.

Mei e Marcello sono gli antieroi romantici interpretati da due attori quasi sconosciuti e bravissimi, diretti in modo impeccabile, a loro agio in un film con ambizioni internazionali, che surfa fra i generi. Un cinema postmoderno e al tempo stesso intrinsecamente non italiano ma proprio romano. Spregiudicato, libero, avventuroso. Il protagonista che forse si chiama Marcello come Mastroianni per la sua romanità indolente e una mascolinità dolcissima e mai tossica è il perfetto partner per una ragazza fortissima che combatte alla pari con gli uomini. Vincendo.
Cinema popolare nel senso più positivo del termine e al tempo stesso nutrito di cinefilia, in ogni caso un film che si guarda senza un secondo di noia, spettacolare, contemporaneo, femminista, con un cast perfetto. Gli auguro tutta la fortuna possibile perché se la merita.
