Non so chi abbai visto il film-documentario Miss Italia non deve morire, andato in onda da qualche settimana su Netflix.
Per chi sia tratto in inganno, non si tratta del racconto storico di quella manifestazione cultural-popolare del nostro Paese da cui uscirono alcune tra le più grandi attrici del nostro cinema. Per citarne alcune Sofia Loren, Lucia Bosè, Silvana Mangano, Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida.
Peccato. Sarebbe stato interessante ripercorrerla, come ogni pezzo della nostra storia, soprattutto quando rappresenta l’evoluzione di un costume, di orientamenti collettivi, di cambiamenti come è stata la nostra negli anni del dopoguerra e della ricostruzione.
Indetto per la prima volta nel 1946, questo concorso di bellezza divenne presto il simbolo dell’avvenenza femminile italiana. Una sfilata di ragazze alte, sorridenti ma mute, che sfilavano rigorosamente in costume da bagno davanti ad una “severa” giuria” (fra cui Totò, Giorgio De Chirico, Giovanni Guareschi, Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Lina Wertmüller, Dino Risi, Alberto Sordi ecc.) e ad un pubblico, di nuovo ricco, che affollava gli alberghi e i luoghi della manifestazione.
Nel tempo, esattamente nel 1950, Miss Italia fu trasmessa attraverso la Radio che ormai tutte le famiglie italiane possedevano diventando un appuntamento e un’appartenenza.
Ma il vero cambiamento, l’ondata d’urto che fece si che la manifestazione diventasse un appuntamento decisivo nel panorama culturale italiano partì nel 1976 quando approdò sugli schermi televisivi locali e nazionali.
Ampliata la platea, ampliati i premi, Miss Italia diventò quasi un traguardo per soddisfare la voglia di emergere di tante ragazze e forse, di “sfruttamento” di molti sponsor e impresari. Fiorirono così premi collaterali all’eleganza, al cinema, al sorriso ecc.
Poi, cambiando il mondo, Miss Italia si dovrà adeguare ed accettare nel concorso non solo le concorrenti con le caratteristiche fisiche considerate tipiche della femminilità italiana ma anche di una bellezza differente nei tratti o nel colore della pelle. Cittadine italiane a tutti gli effetti con diritto a partecipare.
Altri dunque saranno i parametri imposti nel giudizio dei giurati che non dovranno più passare solo dalle misure standardizzate seno-vita-fianchi ma dovranno essere sostenuti anche dalla capacità “verbale” delle concorrenti, dal modo più o meno “naturale” di porsi, che mostrino il minimo sindacabile per non risultare scolasticamente “ignoranti”.
Ad organizzare tutto il Patron di sempre Enzo Mirigliani. Che, come ogni “re”, lascia la sua eredità alla figlia Patrizia, nel 2003.
La stessa Patrizia che firma il documentario denunciando la volontà politica di cancellare per sempre quel concorso.
E in effetti la Manifestazione comincia ad avere il fiato corto già nel 2013, quando la Rai annuncia che non lo trasmetterà più. Passerà ad altri canali di minore ascolto.
Nessuno si muove in sua difesa. Anzi, su di essa si aprono polemiche sia dalla parte politica che da quella delle donne schierate verso un diverso modo di promuovere i talenti femminili.
Da allora per le miss solo qualche piccola manifestazione paesana, un contentino per qualche ragazza in cerca di illusioni, un flop economico per un’azienda cresciuta e pasciuta sull’immagine.
Con queto documentario, Patrizia Mirigliani lancia una sfida.
Si erge a paladina di quelle donne che meriterebbero una chance in più di visibilità e successo nello spettacolo e aree collaterali.
Si toglie qualche sassolino ma la sua camminata resta incerta e Miss Italia forse non tornerà più.
Ma chissà che non abbia ragione lei.
Ad osservare gli spettacoli messi in onda sui canali televisivi senza esclusione di parte.
Donne nude, nudissime, tette e culi in primo piano, una gara di urli, un concatenarsi di immagini offensive e diseducative che vengono premiate e riconosciute.
Non in un concorso, sia pure apparentemente democratico, ma da un pubblico social dove nessuno, di coloro che ne muovono le fila, ci metta mai la faccia.
Ecco perché anche un mediocre documentario può indurre a riflettere su responsabilità collettiva e su cosa significhi fare cultura, IA permettendo.